Facebook, congiunto infrequentabile, pettegolo induttore di falsi bisogni, insiste nel propinarmi, da qualche dì, la video-notizia (ah, che dolore) di un tale di New York, Jeremy, che s’è innamorato di una tale di New York, Tori, vedendola ballare su un terrazzo, dalla sua finestra.
E allora le ha mandato un drone (voi non fatelo, capito?) con il suo numero di telefono sovrascritto e pure un “Mi scrivi?” (ottemperanza alle nuove regole sul consenso, quelle che volendoci liberare dei seccatori, ci costringono a essere seccatrici, ché la seccatura qualcuno la deve pur fare).
Lei deve avergli scritto qualcosa di entusiastico, dal momento che poi nel video si vede lui che costruisce un’enorme bolla di plastica, ci si chiude dentro, e va a prendere Tori e ci passeggia e chiacchiera per la strada, lei libera e lui ingabbiato, o meglio impallato, così che il rischio di contagio tra loro sia azzerato, e l’esempio per i passanti servito.
Il giornale che ha condiviso questo struggente cameo di un testicolo coi piedi che porta a spasso una tonica inspiegabilmente gaudente donzella, ha scritto che questa storia di amore in lockdown è «una delle più dolci e incoraggianti di questo periodo triste».
Soprassediamo sull’esibizionismo, ché ormai dovremmo tutte aver capito che l’uomo che ci corteggia, ama, richiede in sposa/convivente/madre dei suoi figli con gesta eclatanti è un teatrante in cerca di televisione, e noi non siamo che il suo canovaccio, perché in tempi d’urgenza questi sono guai trascurabili.
La tragedia di questo video spacciatomi da Facebook con un’insistenza pari solo a quella di certe mie zie quando mi telefonano per sapere come stia il mio ex (e io che ne so, credo bene, m’auguro male) è doppia. Intendo dire che due sono le ragioni che lo rendono terrificante, spaventoso, pernicioso, eccetera.
Dramma numero uno, questa è una storia motivazionale: avanti popolo, lo vedi che non è successo niente, ma chi l’ha detto che non si può uscire e amare, basta imbustarsi, basta trasformare l’assenza in infinita presenza, basta sorridere, ingegnarsi, reagire, fantasticare. E noi che c’innervosiamo per Beppe Sala che fa dire a Ghali che saremo all’altezza del domani.
Dramma numero due, quel Jeremy è il calco dell’uomo del futuro, quello con il quale, se non interveniamo subito (come? Non lo so, fate voi, io di mestiere addito, mica risolvo) ci toccherà trascorrere la fase tre e tutte quelle che verranno.
Jeremy è il perfetto coronnial e non lo è soltanto in senso anagrafico (come si vede, coronnial è crasi di due tra le più grandi sciagure del secolo, i millennial e il coronavirus, e gli anglosassoni l’hanno coniata per indicare i trentenni che si amano, incontrano, conoscono durante questa pandemia).
Jeremy è coronnial nella sua orripilante dimestichezza col tempo nuovo, nella sua adattabilità gioiosa a questo schifo di presente nel quale toccare un essere umano significa attentare alla salute pubblica, nell’intraprendenza involontaria con la quale ha trasformato un ostacolo in una favola per social network.
Dio ci scampi da quelli che non si perdono d’animo, neppure per un momento. Dai leziosi dell’ubbidienza, i radiosi della crisi che è opportunità (sì, certo, ma diciamolo meglio, e con onestà: la crisi è prima di tutto crisi, e quindi perdita e disorientamento, e poi, soltanto poi, possibilità).
Il futuro è dei nerd, ha scritto Francesco Cundari. E io quando l’ho letto sono quasi morta – infarto giovanile, ho temuto – , tanto m’è parso indiscutibile, tanto perfettamente collimavano diagnosi e prognosi, congiuntura e congiunti.
Perché al tempo nuovo che ci aspetta sembra proprio s’attagli «il monogamo, paziente e pelato, da sempre abituato a radersi i capelli da solo e a star chiuso in casa». Sembra, però non è. Perché quando ho visto Jeremy e Tori ho capito che è più probabile che il futuro sia dei coronnial, gli acquiescenti a cui sta bene tutto, perché di tutto sanno fare una commovente Instagram story.
Rispettare le regole è importante sempre, non solo adesso, ma è molto diverso dall’adattarsi a tutto. Noi non ci dobbiamo adattare alla fine del contatto, creando suoi surrogati: noi dobbiamo aspettare di tornare liberi di toccarci. Perché i surrogati, sapete, sviluppano la sindrome della poltrona, e finiscono col prendere il posto degli originali.
Noi dobbiamo rispettare il distanziamento sociale e prenderlo per quello che è, e cioè una sevizia utile, una compressione orrenda della nostra libertà: se lo infiocchettiamo, finiremo con l’innamorarcene, e di tornare a stringerci la mano non avremo voglia (avanti, quanti di noi hanno veramente giubilato il 4 maggio?).
Il nerd si ritira dal mondo, e in questo suo ritirarsi c’è un’obiezione, una rivolta, un’integrità. Il coronnial no, il coronnial è lo zio democristiano che abbiamo tutte, quello che ama della medesima passione la lasagna epica di sua moglie e quella appena edibile del discount. S’adatta, zio. Vede in ogni lasagna un’opportunità.
C’è un racconto del ’36 di Robert Musil, si chiama Percezioni finissime, e dura due paginette, e parla di un uomo che s’innamora di una donna che non ha mai visto, e che sta nella stanza accanto alla sua, in albergo. Impara di lei tutto quello che può sentire, il tempo che ci mette a lavarsi, il rumore che fa quando apre i cassetti, gli orari in cui rientra; e immagina di lei tutto quello che non può sentire, il modo in cui si spoglia, quello in cui si mette a dormire, le cose a cui bada, pensa, non pensa.
È un amore, quello di quest’uomo invisibile, che Jeremy non può capire, affannato com’è a portare tutto a compimento, a spremere le cose affinché siano efficaci e utili. E’ un amore, quello che racconta Musil, per il desiderio, quell’affare che non s’adatta al distanziamento nemmeno per decreto.