Il mese di maggio ci ha portato un radioso revival del socialismo liberale. Proprio nel giorno della festa dei lavoratori, Claudio Martelli ha battezzato l’ennesima rinascita de l’Avanti!, aggiungendo alla storica funzione di organo del socialismo italiano (quale?), un impegnativo indirizzo programmatico: «voce del socialismo liberale».
Secondo un sempre acuto Rino Formica, pulsioni simili starebbero dietro progetti editoriali pur contrapposti, sia quello in atto di John Elkan, sia quello progettato di Carlo De Benedetti. Tutti a soffiar candeline sulla torta del socialismo liberale.
Quasi contemporaneamente all’uscita di Martelli, del resto, Eugenio Scalfari ha spiegato la svolta della Repubblica che ha stabilizzato la nuova proprietà, insistendo sulla genetica del giornale come espressione del socialismo liberale, e ritornando sul tema – con l’articolessa della domenica successiva – individuando anche l’incarnazione di questo concetto nientemeno che in Giuseppe Conte, arditamente paragonato ad un altro Conte, quello di Cavour, arricchito da qualche contaminazione garibaldina.
Peccato che proprio non sia riuscita l’acrobazia di arrivare fino a Mazzini, che secondo Scalfari non riusciva ad oscillare come Cavour e Giuseppi tra centro e sinistra. Nel quartetto risorgimentale mancava solo Vittorio Emanuele, inspiegabilmente ignorato nella costruzione dell’altarino. In compenso, all’avvocato del popolo è stata accreditata una somiglianza con Papa Francesco, che ormai sta bene su tutto. Anzi è la «modernità per eccellenza» e dunque abbiamo anche un Conte a la page.
Tutto questo a seguito di «una lunga telefonata» col presidente del consiglio, compreso un esame sulla conoscenza di Etienne de la Boetie (quello della “Servitù volontaria”, giustamente da far leggere ai populisti) e pagella finale: «l’ho trovato conforme alla mia visione: un socialista liberale».
Purtroppo si era però dimenticato di informare il Fondatore dell’intervista rilasciata nelle stesse ore all’altra testata del gruppo, La Stampa, nella quale Conte ha preferito confessare che le sue radici culturali (?) affondano nel cattolicesimo democratico, a conferma che il suo sogno, altro che Cavour, è di essere il nuovo Moro, eletto in Puglia e destinato al mondo.
Al netto di tutte queste immaginazioni, fantasticherie e vanterie, resta la sorpresa per il ritorno in auge del socialismo liberale proprio nel Paese che da qualche decennio non ha più sulla scena né un partito liberale né uno socialista, sostituiti da surrogati vari: il partito liberale di massa oppure la nascita di una sezione italiana del Partito Socialista Europeo all’esito di un blitz voluto in solitaria da un postdemocristiano.
Assenze liberali e socialiste che purtroppo pesano oggettivamente sul basso livello del dibattito e della cultura politica nazionale, più facilmente disponibile, così, a interpretare le parole d’ordine sulla fine immaginaria della destra e della sinistra come un via libera a qualsiasi “novità” populista o sovranista.
Piacerebbe anche a noi sognare, come tante volte è accaduto nel secolo scorso, una intesa tra le due idee forza dell’Europa moderna, che ancora riescono – con i cattolici e i verdi – a realizzare una maggioranza al Parlamento europeo. Ci fu un tentativo lib-lab nella fase più feconda del pentapartito, con Bettiza ed Intini, ma non ebbe fortuna.
Cosa sia il liberal socialismo, infatti, ancora nessuno è riuscito a raccontarlo bene. Si torna in chiave politica al mancato accordo tra Giolitti e Turati, ma in chiave ideale soprattutto a Carlo Rosselli, l’interprete più sincero del tentativo di rendere il socialismo sensibile alla libertà e il liberalismo all’uguaglianza.
Tentativo che sulla concreta scena politica è stato forse praticato dal migliore Blair e dal migliore Renzi, ma con risultati non duraturi, non essendo stato possibile convertire stabilmente né i laburisti, ricaduti infatti nell’orgoglio delle origini con l’infausto passo indietro di Corbyn, né, allo stato, i democratici, oggi ancora dubbiosi sul jobs act o sull’articolo 18.
Di solito, il problema si risolve usando la parola riformista, buona per tutte le stagioni, ed è comunque vero che il confine ideale e politico passa spesso di lì, e cioè dalla voglia di fare riforme vere, difficili da far capire, anche controcorrente. Ma in conclusione resta un po’ poco, perché tutti si dicono riformisti. Anche i decreti Salvini possono convivere con un governo riformista che non li tocca.
Rino Formica, parlandone con Martelli, è stato ruvido citando un articolo degli anni 20 di Claudio Treves su Rosselli nel quale lo definiva «né socialista né liberale». Ecco cosa diventa il socialismo liberale se è adattabile, come oggi sembra, a tutti i palati.
Ha ragione Marco Taradash: non tutte le battaglie storiche di Repubblica, ad esempio, sono state liberalsocialiste, e proprio l’infatuazione del Fondatore volta a volta per Berlinguer, De Mita, Di Pietro, oggi persino Conte, stanno a dimostrare che la definizione di liberalsocialismo è un po’ troppo larga, perché non può riuscire a coprire tutto e il contrario di tutto.
Liberalsocialismo o socialismo liberale, cercasi.