La versione di CassandraCi saranno altre ondate di covid-19 nei prossimi 36 mesi

Laurie Garrett, giornalista scientifica e premio Pulitzer aveva previsto l’epidemia di coronavirus dal 1994, e prima anche l’Aids. Ora spiega che anziché fare test è meglio condurre studi affidabili sulla mortalità nelle diverse fasce della popolazione per costruire piani di riapertura e chiusura mirati, efficaci e sostenibili

Josh Edelson / AFP
Josh Edelson / AFP

Prima di liberarsi dell’emergenza coronavirus ci vorranno ancora 36 mesi. Ed è lo scenario migliore. Non c’è il vaccino (nonostante gli annunci del presidente degli Stati Uniti Donald Trump), e non ci sono le cure (no, il remdesivir non lo è davvero). Secondo Laurie Garrett, giornalista scientifica, premio Pulitzer per articoli su Ebola e autrice di The Coming Plague, libro in cui, inascoltata come una Cassandra, prevedeva (dal 1994) l’arrivo di una pandemia come quella del Covid, le premesse per il futuro non sono buone.

«Sono sicura che avremo diverse ondate», spiega a Frank Bruni sul New York Times. Non uno tsunami, ma tanti eventi locali: «piccole ondate che si impenneranno ora qui, ora da un’altra parte», con conseguenze prevedibili: sulla cultura dei viaggi, che cambierà. Su trasporto di massa, che dovrà essere rivisto. Sulla necessità di incontrarsi di persona, che ha già perso quota.

In generale, spiega, non ci sarà nessun ritorno alla normalità. Ma, come è sempre accaduto («Anche dopo l’11 settembre»), se ne creerà una nuova. Il problema è capire come sarà. Alcune intuizioni sono poco rassicuranti. La compattezza della popolazione è a rischio, per esempio. Negli Stati Uniti (ma anche altrove, si può dire) la pandemia rischia di rafforzare le differenze sociali.

(Laurie Garrett)

«Se si entra nella prossima ondata con i ricchi che sono diventati più ricchi, facendo speculazioni e sfruttando la pandemia, mentre noialtri usciamo dalla nostra buca e scopriamo che, “oddio, non soltanto ci sono molti disoccupati in più, non c’è soltanto il problema dei mutui o degli affitti che non riusciamo a pagare: ci sono anche quelli che prima viaggiavano in elicottero e che adesso lo fanno con l’aereo personale, con tanto di isola privata in cui rifugiarsi. A loro non interessa certo se siamo al sicuro o no”, ecco, credo che ci saranno forti sommovimenti». In altre parole, quando vedremo «cosa significa il 25% di disoccupazione, forse avremo anche un’idea di cosa sia la rabbia sociale».

La direzione è quella. Garrett, che ha saputo presagire anche l’impatto dell’Aids, è stata fellow alla Harvard’s School of Public Health, ed è tuttora chiamata da Paesi di tutto il mondo per consulenze sul tema (lo ha fatto anche per il film “Contagion” del 2001, finora profetico), sa bene di cosa parla. Non è rimasta stupita dalla devastazione del virus, né dai tentativi cinesi di nasconderlo, e neppure dalla risposta lenta e macchinosa di tanti Paesi.

Non si aspettava invece che gli Stati Uniti diventassero la pietra di paragone per negligenza e trascuratezza. «Non lo avrei mai pensato».

Colpa di Donald Trump, certo: all’inizio si fida delle rassicurazioni di Xi Jinping, poi aspetta ad agire da gennaio a marzo, perdendo tempo preziosissimo, poi ancora si perde a suggerire rimedi assurdi, rinunciando a dare una risposta federale alla crisi (ogni Stato vada per conto suo) e tuttora non riuscendo a mettere in piedi una strategia efficace di contenimento.

Un fallimento totale che ha avuto le sue ripercussioni in tutto il mondo: gli Stati Uniti, per scelta e incapacità, hanno rinunciato al ruolo di guida mondiale. Questo si è visto anche nella crisi sanitaria.

«Il problema, però, è più grande di Trump e precede di gran lunga la sua presidenza». L’America non ha mai creduto abbastanza nelle politiche di salute pubblica e ha concentrato gli investimenti nello sviluppo di nuove cure per i problemi al cuore o per il cancro.

«I temi di dibattito pubblico per la sanità riguardavano l’accesso delle persone alla sanità», senza preoccuparsi delle premesse ambientali, cioè fornire aria e acqua pulita a tutti, immaginare politiche per contenere le epidemie in modo rapido e proteggere gli altri. «Quali sono i riconoscimenti per chi si occupa di queste cose»?

La stessa Harvard è lo specchio del Paese, o almeno di questa concezione della sanità (si può dire, riscontrabile anche altrove): finanziamenti estesissimi per la Medical school e poche risorse per la School of Publich Health, il cui edificio «ha la peggiore architettura possibile, con i soffitti che cadono».

Questo è il passato. D’ora in poi si dovrà cambiare strategia. Soprattutto, spiega, non insistere troppo sui tamponi. «Non ci sarà mai un tipo di test superveloce e superaffidabile in grado di stabilire se qualcuno può o non può entrare in uno spazio frequentato».

Un particolare rivelatorio: bisogna avere «buona informazione», e non si riferisce ai media, ma agli studi epidemiologici, che devono essere «rigorosi, che possano stabilire la prevalenza e la mortalità delle infezioni da coronavirus in dati sottoinsiemi di persone. Così i politici, governatori e sindaci, potranno mettere in piedi regole intelligenti e sostenibili di distanziamento sociale e riaperture studiate per la situazione in questione».

Dal punto di vista tecnico questo è più un suggerimento che una previsione. Ma a guardare le scelte strategiche adottate finora, c’è da credere che non sarà ascoltato nemmeno questo.

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