Un giudice a KarlsruheIl problema non è la corte tedesca, ma l’assenza di una cultura giuridica europea condivisa

Colpa di un’architettura non ben definita che lascia dubbi sulle rispettive sfere di competenza, nutrendo i timori delle Corti nazionali di vedersi scavalcate da un organismo espressione di trattati internazionali

Sebastian Gollnow / POOL / AFP

Dopo un primo stordimento, per bocca della presidente Christine Lagarde, la Banca centrale Europea ha risposto con un duro comunicato alla Corte Costituzionale tedesca. Anche la Commissione europea, per bocca stavolta della presidente tedesca Ursula Von Der Leyen, ha reagito con severità.

Non era possibile ignorare il colpo arrecato ai delicati equilibri dell’Unione dalla sentenza con cui la corte tedesca metteva in dubbio la legittimità del Pspp (Public Sector Purchase Program), il vecchio programma di acquisto straordinario di titoli di Stato varato dalla Bce di Mario Draghi. 

A tutti è apparso evidente che nel mirino dei giudici di Karlsruhe ci fosse anche (soprattutto?) il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program), appena varato da Lagarde, considerato troppo penalizzante nei confronti delle imprese e dei risparmiatori tedeschi e a vantaggio, al contrario, dei partner europei meno virtuosi.

Sergio Fabbrini, sul Sole 24 Ore, ha spiegato che l’ideologia che muove i giuristi tedeschi risponde alla concezione secondo cui «senza un popolo omogeneo non può esserci una democrazia, con la conseguenza che questa possa prosperare solo nello Stato nazionale costituzionale».

Il “patto fondamentale” che lega i cittadini alla propria forma di governo (o di rappresentanza parlamentare) costituisce un limite invalicabile, oltre il quale non può andare alcuna corte o legislazione sovranazionale, la quale è invece pura espressione di trattati stipulati tra Stati nazionali – ancor di più se si tratta di mere convenzioni economiche. Per questo, qualche giorno fa, abbiamo parlato di «populismo economico», anche se la grana non è grossolana come quella dei sovranismi di casa nostra.

Che la cosa sia tremendamente seria lo si comprende dal tenore della risposta più dura, e per certi versi sorprendente, che è arrivata dalla Commissione.

Von Der Leyen, forse motivata dall’esigenza di prendere le distanze dalla Corte Suprema del suo Paese, non si è limitata a ribadire la fiducia nell’operato della Banca Centrale e a ricordare, con parole inequivocabili e toste («l’ultima parola sulle leggi dell’UE è sempre pronunciata in Lussemburgo. E in nessun altra sede»), la competenza esclusiva della Corte lussemburghese per quanto riguardi l’osservanza dei trattati europei, compreso il TFUE (Trattato di funzionamento dell’unione europea) che ha sostituito la Costituzione europea.

È andata oltre. E ha annunciato di «prendere molto sul serio» una decisione che «tocca la sovranità europea», e che Bruxelles sta «analizzando nel dettaglio» il verdetto di Karlsruhe al fine di valutare «i prossimi passi fino alla procedura d’infrazione».

Siamo al limite del fallo di reazione: la situazione lo giustifica, ma l’esperienza spinge a considerarlo espressione, molto spesso, più di paura che di consapevolezza della propria forza – anche se qualche commentatore politico ipotizza che dietro la presidente ci sia la stessa Angela Merkel, certo non entusiasta della levata di scudi della sua Corte Costituzionale.

È difficile immaginare in assoluto una procedura d’infrazione contro il maggior azionista dell’Unione, tanto più perché avrebbe ottemperato a un obbligo posto dal supremo «giudice delle leggi», che veglia sulla «legge generale» dello Stato tedesco. Il tutto, in un Paese profondamente segnato dalle tragiche memorie dell’autoritarismo e, dal punto di vista culturale, impregnato dalla teoria normativistica di Hans Kelsen («la norma madre da cui tutto l’ordinamento deriva»).

C’è di che preoccuparsi. E l’Italia ha diversi motivi per esserlo. La presa di posizione della Corte di Karlsruhe ha un suo retroterra: è una storia che viene da lontano e che nasce dai problemi irrisolti della struttura politico-istituzionale europea e della sua architettura giuridica, che del resto è espressione della politica.

Per quanto Lagarde e Von Der Leyen definiscano «indiscutibile» la questione del primato della Corte Europea, il punto è invece tutt’altro che pacifico e la Corte Costituzionale italiana ne sa qualcosa, avendo già sostenuto (e pure vinto) un duro braccio di ferro con il Lussemburgo in una materia non meno scottante: la prescrizione, ben prima del ministro Alfonso Bonafede.

Nel 2016, la Corte Europea – alla quale si era rivolto un giudice italiano, cui ripugnava di dichiarare prescritta una consistente frode fiscale – emise una sentenza dirompente, nella quale richiedeva al legislatore italiano di disapplicare due articoli del codice penale che determinavano termini a suo parere troppo esigui di prescrizione. Ciò causava un danno grave agli interessi dell’Unione Europea in termine di entrate comunitarie.

La sentenza europea suscitò anche qualche entusiasmo in Italia, tra cui quello di un eminente studioso di diritto penale oggi approdato alla Consulta, a dimostrazione che Bonafede non è solo un incidente di percorso (abissale incompetenza a parte, naturalmente).

La Consulta, presieduta da Giorgio Lattanzi, magistrato di grande personalità e cultura, ebbe invece – come la maggioranza della giurisdizione italiana – una posizione di netto rifiuto, a difesa delle proprie prerogative.

Il punto tecnico della controversia era che per il diritto italiano la prescrizione ha un valore di diritto sostanziale, per cui l’eventuale disapplicazione non può andare a riguardare i reati già commessi, bensì, eventualmente, quelli ancora da compiere.

Ma la posta in gioco in realtà era un’altra: riguardava il ruolo e le prerogative gelosamente custodite della Corte Costituzionale. Al pari di tutte le altre Corti nazionali europee, anche lei ha un fortissimo problema di tutela del proprio ruolo interno contro l’invadenza dei colleghi europei.

Con questo spirito la Consulta sollevò un confronto con il Lussemburgo sotto forma di interpellanza preliminare, il cui succo era di ottenere il riconoscimento del proprio ruolo esclusivo a decidere nel caso in cui le norme dei trattati europei fossero «in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro».

In sostanza, a casa propria ognuno è padrone e il popolo (italiano allora, tedesco oggi), prima di tutto. Ricorda qualcosa?

Il braccio di ferro si è risolto in un onorevole compromesso, maturato, secondo quanto dicono i bene informati, con il viaggio e l’incontro delle corti a Roma, sede non casuale come segnale di distensione e di omaggio.

Una sostanziale ripartizione di competenze, insomma, ritenuta soddisfacente dalla Corte italiana ma che certo ha lasciato invece aperta la questione scottante sui reciproci confini di intervento e di autonomie.

A ben vedere, allora, anche Karlsruhe si è mossa in quel solco, avvertendo una minaccia nei confronti dei suoi principi di indubbia rilevanza costituzionale.

La tutela del risparmio e la libera concorrenza delle imprese tedesche, che rientrano in pieno in questa sfera, sarebbero risultati lesi da una politica monetaria che teneva bassi i rendimenti d’interesse dei titoli nazionali e favoriva le esportazioni di imprese altrimenti non competitive con quelle tedesche.

Ora, non è difficile immaginare che anche stavolta si troverà una soluzione di compromesso tra giuristi e banchieri. Ma è bene avere chiaro quali siano i problemi aperti, le ambiguità, i “non detti” sia in politica che nell’ambito dell’ordinamento giuridico.

Il problema (serio) che emerge è che, oltre a una unione politica, manca anche una comune visione giuridica. Non basta avere una unica banca, sono necessari un unico governo centrale e un’unica giurisdizione. La sfida per le prossime generazioni.

Anche perché il diritto, come da queste parti cerchiamo di spiegare da qualche mese, è una visione politica. Mai così rilevante come oggi.

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