È l’ultima dei (Mohicani) britannici nella Corte di giustizia dell’Unione europea. Ed è decisa a sfruttare questa posizione per consacrarsi, ancora una volta, al diritto comunitario. Nessuna orazione funebre in vista: l’uscita di Eleanor Sharpston risuonerà come un canto del cigno, nelle aule ovattate della Corte di Lussemburgo. Sharpston, 65 anni a luglio – su Twitter si definisce musicista amatoriale e karateka – è avvocato generale dal 2006: insieme ad altri dieci colleghi, svolge un ruolo centrale per l’avanzamento del diritto dell’Unione europea.
Da Trattato, infatti, gli avvocati generali sono membri a tutti gli effetti della Corte e assistono il collegio giudicante, formulando un parere legale indipendente, attraverso delle conclusioni che vengono presentate per iscritto e poi in udienza all’attenzione dei giudici che pronunceranno la sentenza. Gli avvocati, al pari dei giudici, sono nominati per un mandato di sei anni (rinnovabile) di comune accordo dai governi degli Stati membri fra giuristi di riconosciuta competenza che garantiscano anche la necessaria indipendenza nel ruolo.
Il destino di Eleanor Sharpston è stato però deciso dal suo passaporto: cittadina britannica, i rappresentanti dei governi dei Ventisette hanno messo nero su bianco in una dichiarazione che il suo mandato, al pari di quello del giudice Christopher Vajda, si sarebbe concluso il 31 gennaio, con l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, anziché, come previsto, nell’autunno 2021. Tuttavia, per non lasciare un posto vacante, il documento rende operativa la sostituzione di Sharpston con un avvocato generale indicato dalla Grecia il 6 ottobre prossimo, in concomitanza con uno dei mini-rimpasti previsti dal funzionamento interno all’istituzione.
Per la giurista formatasi a Cambridge si è trattato di un affronto non da poco; la conferma che lo stato di diritto nell’Unione europea non è messo poi così bene se un consesso di Stati membri può interferire nella composizione del più alto organo giurisdizionale, andando al di là di quanto in suo espresso potere.
I Trattati prevedono infatti che ogni Stato membro ha il diritto di nominare un giudice della Corte di giustizia, ma non danno indicazioni analoghe quanto agli avvocati generali, il cui numero è fissato a undici.
Solo i big six (Francia, Germania, Italia, Spagna, Polonia e – sino ad oggi – Regno Unito) – hanno il privilegio informale di avere un avvocato generale permanente; mentre per gli altri è in vigore un sistema di rotazione con rinnovi parziali ogni tre anni.
Ma, in mancanza di una modalità di designazione simile a quello dei giudici – per cui la venuta meno di uno Stato membro porterebbe con sé anche il corrispondente alto magistrato -, le uniche norme su cui si può fare riferimento sono quelle che prevedono la rimozione di un avvocato generale per delle ipotesi disciplinari tassative. Per esempio la perdita delle condizioni di nomina previste nei Trattati o una colpa grave (che deve essere ravvisata all’unanimità dalla Corte stessa) -, oltre naturalmente a casi fisiologici come le dimissioni e la morte.
Insomma, la fine anticipata del mandato di Eleanor Sharpston e la sua sostituzione a far data da ottobre 2020 con un nuovo avvocato generale non avrebbero una valida base legale né nei Trattati né nello statuto della Corte e, anzi, sarebbero in aperta violazione delle garanzie previste nel diritto primarie dell’Ue a tutela dei componenti dell’istituzione di Lussemburgo.
Sharpston ha avviato così due cause parallele di fronte al Tribunale, l’istanza della Corte di giustizia competente anche per le controversie in materia di rapporti di lavoro: una contro il Consiglio dell’Unione europea e la sua dichiarazione datata 29 gennaio, l’altra contro la Corte stessa che ha seguito il diktat degli Stati dichiarando il posto della britannica libero a partire dal 1° febbraio.
«Potrebbe essere l’ultimo servigio che rendo alla mia Corte», ha detto, mettendosi in gioco in prima persona: «Vediamo se posso fare qualcosa per respingere il tentativo degli Stati membri di intromettersi nell’autonomia e nell’indipendenza della Corte di giustizia».
Molte voci si sono sollevate nella comunità giuridica europea a sostegno di Sharpston. Alcune si sono anche spinte a individuare nella dichiarazione post-Brexit firmata dai rappresentanti di governo una violazione dei valori fondamentali su cui si regge l’Ue: è irrinunciabile «che l’Unione si comporti come una comunità valoriale, dia l’esempio e si attenga ai propri principi, fra cui il rispetto dello stato di diritto», che non è un parametro da riportare in auge solo quando ci si confronta con le riforme liberticide e che limitano l’indipendenza della magistratura di alcuni Stati dell’Europa dell’est.
Come scrive Takis Tridimas, fra i più profondi conoscitori del diritto europeo e delle stanze di Lussemburgo, sono quattro in buona sostanza le funzioni che svolge un avvocato generale: assiste la Corte nella preparazione della causa, propone una soluzione, ne giustifica le ragioni in punto di diritto, valuta in maniera critica i precedenti giurisprudenziali sulla materia. Gli avvocati generali non seguono ogni singolo caso ma soltanto, come recita lo statuto della Corte, quelli che sollevano nuove questioni di diritto: in media, il 30 per cento delle cause che arrivano a Lussemburgo.
L’avvocato generale non è un pubblico ministero ma un membro della Corte che presta una consulenza nell’interesse generale del diritto dell’Unione europea, fornendo un’interpretazione influente che è altamente probabile venga seguita dal collegio giudicante (secondo rilievi empirici, questo accadrebbe due volte su tre).
Sconosciuta in molti sistemi giuridici europei, la figura dell’avvocato generale fu introdotta già nel Trattato di Roma, che nel 1957 istituì la Comunità economia europea, sul modello del giudizio amministrativo francese, dove un Commissaire du Gouvernment fornisce consulenza al Consiglio di Stato prima che questo decida su una causa.
Mentre si gettavano le fondamenta istituzionali della Corte, infatti, Parigi volle assicurarsi che la pratica statunitense delle dissenting opinion fornite dai giudici in minoranza rispetto a un certo responso si mantenesse ben lontana dalle aule lussemburghesi e che la lettura personale di una questione di diritto venisse demandata a una funzione istituzionalmente preposto. Le sentenze, infatti, sono pronunciate per curiam e sono firmate da tutti i membri del collegio giudicante.
I primi due avvocati generali, il francese Maurice Lagrange e il tedesco Karl Roemer, svolsero il ruolo di battistrada nella formazione dei principi di diritto che avrebbero poi negli anni guidato la Corte di Lussemburgo, garantendo coerenza anche rispetto agli ordinamenti legali degli Stati membri.
Tra le conclusioni più recenti dell’avvocato generale Sharpston, quella – poi seguita dalla Corte il mese scorso – che stigmatizzava il rifiuto di tre Paesi del Gruppo di Visegrád (Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca) di partecipare allo schema di ricollocamento obbligatorio dei richiedenti asilo messo in atto temporaneamente dall’Unione dopo la cosiddetta crisi dei migranti del 2015, in risposta alla pressione dei flussi su Grecia e Italia.
Conclusioni in cui riecheggia il mantra di uno stato di diritto sempre più in asfissiante difficoltà nel Vecchio continente: «Gli Stati membri non possono (…) disapplicare una valida misura del diritto dell’Ue sol perché non sono d’accordo».
Madame l’Avocat Générale Sharpston potrebbe presto trovarsi a ripetere queste stesse parole nella Corte di Lussemburgo; ma per la prima volta nella sua lunga carriera lo farebbe patrocinando un caso che la concerne direttamente, ma che riguarda da vicino anche la separazione dei poteri nell’Unione europea. Avvocata del popolo.