Ci sono un italiano, un tedesco, una belga, una spagnola, un danese e un’inglese. Non è l’inizio di una barzelletta, ma della trama di uno dei film cult del nuovo secolo, L’appartamento spagnolo. La fotografia mentale di una delle esperienze più formative della vita: l’Erasmus.
È passato un po’ da quel lontano 1987 in cui l’allora Comunità europea lanciava in via sperimentale lo European Region Action Scheme for the Mobility of University Students (ERASMUS – e un pensiero commosso al genio che inventò quell’acronimo), ma il programma di scambio universitario è sembrato lanciato in inarrestabili magnifiche sorti e progressive. Un’esplosione di candidature istantanea, un successo totale, trasversale a qualsiasi categoria politica.
E soprattutto una crescita poderosa che ha permesso a oltre dieci milioni di ragazze e ragazzi di passare almeno un semestre di studi all’estero in trentaquattro Paesi (dagli undici inizialmente coinvolti), senza contare le altre decine di Stati in vari modi associati.
La Commissione europea qualche anno fa ha pubblicato un dato malizioso: dall’Erasmus sono nati almeno un milione di baby-europei, un fenomeno a cui ha dedicato pure una serie podcast La Stampa.
Il simbolo migliore, sorridente e inattaccabile, del “sogno europeo”, insomma. Sino a quando ad attaccarlo è arrivato il coronavirus. Una minaccia mortale per un programma fondato sull’idea dell’assenza di frontiere, della contaminazione tra lingue, culture e persone.
Come hanno provato sulla propria pelle i ragazzi che in Erasmus si trovavano proprio quando la pandemia ha congelato l’Europa. «All’inizio pochi prendevano sul serio la questione, e noi italiani più preoccupati venivamo quasi guardati male, quasi fosse un problema solo nostro», racconta Marco, 24 anni, cuneese trapiantato a Bologna ora in trasferta a Gent. «Ma l’illusione è durata poco, e nel giro di pochi giorni ci siamo ritrovati tutti rinchiusi nelle nostre stanze. Niente più feste, lezioni solo al pc: il massimo della socialità ora è la sigaretta la sera nel cortile dello studentato. Tornando indietro, è ovvio, sarei partito per un solo semestre».
Quello che non ha potuto godersi Tina, 21enne di Düsseldorf, che a Parigi per studiare cinema era arrivata da una manciata di settimane quando anche la Francia ha decretato il confinement. «Quando è cominciato, ho pensato che sarebbe durato lo stretto necessario, e che con la bella stagione le cose sarebbero migliorate. Invece la ripresa è molto più lenta e problematica. Ma non mi perdo d’animo, e ora sto pensando di rimanere qui fino ad agosto».
La scelta, se restare nella nuova città straniera o rientrare, non è stata facile per nessuno. Scommettere sulla propria “resistenza” solitaria a una minaccia sconosciuta, o arrendersi all’idea di un’esperienza diventato impossibile? Dei 165mila studenti che si trovavano in scambio al momento dello scoppio della pandemia, le stime della Commissione europea, circa il 60% ha deciso di tornare a casa.
Tra questi, anche una buona fetta degli studenti internazionali che si trovavano nel nostro Paese nei giorni dello shock di Codogno. Spesso su pressione delle famiglie, spaventate dal ciclone sanitario che pareva travolgere (solo) l’Italia, molti degli “ospiti” Erasmus, specie nel Nord Italia hanno preso il primo volo, o treno, disponibile.
Scelte comprensibili, ma che hanno lasciato strascichi pratici spesso ancora da risolvere, come spiega il presidente di Erasmus Student Network (Esn) Italia Giovanni Telesca. «Quando sono andati via, molti si aspettavano di tornare presto in Italia e hanno lasciato nelle proprie stanze vestiti, libri, oggetti e accessori, che hanno bisogno di riprendere».
Con le frontiere ancora chiuse, un dilemma. Per ora è allo studio l’ipotesi che possano essere proprio i volontari di Esn – con 530 sedi in Europa e 54 in Italia una vera e propria “infrastruttura informale” dell’Erasmus – a occuparsi del recupero e reinvio a destinazione degli effetti personali dei ragazzi. «Ci sono ostacoli legali e pratici da superare – spiega Telesca – ma ci stiamo lavorando».
Gli studentati hanno interrotto quasi universalmente le rate, ma chi aveva optato per soluzioni “private” non sempre è stato altrettanto fortunato. Non tutti i proprietari di appartamenti hanno acconsentito ad abbuonare in via eccezionale gli affitti, o lo hanno fatto solo parzialmente. Migliaia di ragazzi, insomma, si sono ritrovati lontani dalla propria città Erasmus, ma con spese locali ancora tutte da onorare.
Per questo tra le prime contromisure che la Commissione ha disposto in linea col principio di “forza maggiore” c’è stata la garanzia del proseguimento delle borse Erasmus per tutti gli studenti, anche in caso di rientro anticipato.
La direzione generale competente di Bruxelles ha inviato tutti gli attori coinvolti – a cominciare dalle università – a reagire con flessibilità per rispondere in modo efficace alle esigenze e ai problemi degli studenti per consentire loro di concludere correttamente il percorso accademico. E la risposta, confermano i ragazzi, è stata quasi sempre all’altezza della situazione.
Lo spostamento di lezioni ed esami in modalità digitale ha consentito a tutti di proseguire il piano di studi indipendentemente dalla scelta fisica operata. Mentre sul piano logistico e amministrativo, la gran parte degli uffici studenti internazionali degli atenei si sono fatti in quattro per fornire ai ragazzi stranieri informazioni chiare e aggiornate, in inglese e altre lingue, sulla situazione sanitaria, le restrizioni in vigore, le opzioni pratiche a disposizione.
Spesso in sinergia e a contatto quotidiano con le associazioni studentesche locali. «Nei primi giorni c’è stato per tutti un po’ di panico e disorientamento, ma alla prova dei fatti il sistema Erasmus ha dimostrato una straordinaria capacità di reazione», rivendica Sara Pagliai, coordinatrice dell’Agenzia Erasmus+ Indire.
«Sotto la pressione della pandemia, è venuta fuori la vera ricchezza del programma: quella di essere prima di tutto una rete tra istituti, fondata su relazioni umane vere tra persone che lavorano da anni con gli stessi obiettivi nel campo dell’educazione. Ed è di quest’Europa, flessibile e solidale, che dobbiamo andare fieri».
Per mantenere viva l’esperienza Erasmus nonostante la pandemia, alcune istituzioni ufficiali e non hanno ideato iniziative digitali ad hoc. Esn ha lanciato su scala pan-europea la campagna #ErasmusatHome, un album collettivo su Instagram per raccogliere racconti e immagini dell’Erasmus “da casa” di migliaia di ragazzi, ma anche l’hashtag con cui segnalare le centinaia di attività di socializzazione disponibili eccezionalmente online per gli studenti: dai tandem linguistici alle sfide di fitness.
L’agenzia italiana, ha promosso sul proprio sito erasmusplus.it la campagna #IoRestoErasmus, per raccogliere voci, storie e pensieri dei ragazzi, ma soprattutto riaffermare che l’Erasmus – anzi, dal 2014, Erasmus+ – «non si ferma».
Già, the show must go on, i percorsi accademici devono continuare, e il programma simbolo dell’integrazione europea non può fermarsi. Ma come? A giugno forse si riapriranno le frontiere, a mano a mano che la situazione epidemiologica si farà meno drammatica, ma l’idea di una ripresa di viaggi e scambi regolari tra Paesi europei tra pochi mesi appare un miraggio.
Contattata da Europea, la Commissione ufficialmente si mantiene prudente, affermando che è ancora troppo presto per prevedere l’impatto della crisi sul prossimo anno accademico. Ma nei documenti di lavoro in discussione in queste settimane, l’orientamento appare già chiaro.
Almeno per il 2020-21, l’Erasmus dovrà cambiare veste, e concretizzarsi per i vincitori delle prossime borse sotto una nuova forma: quella della blended mobility. Tradotto: ci si potrà iscrivere all’università scelta per lo scambio, ma corsi ed esami, almeno per il primo semestre, saranno da remoto. Solo nel secondo semestre, se la situazione lo consentirà, la mobilità tornerà a essere vera, fisica, tangibile.
Un anno di “decantamento” viene considerato, stante la situazione, fisiologico da tutti gli attori in campo. Ma la vera partita, per l’Erasmus, si gioca sul medio-lungo periodo. Già, perché i mesi dell’estate e dell’autunno prossimi saranno anche e soprattutto quelli in cui i governi Ue dovranno decidere come distribuire le risorse comuni da mettere a bilancio per i prossimi sette anni: dal 2021 al 2027.
Nel calderone dei negoziati su cifre, tempi e modi di distribuzione dei fondi per assicurare la ricostruzione post-crisi, il rischio è che a rimanere indietro sia proprio qualcuno dei programmi di spesa “storici” dell’Unione. «Nella sua proposta originaria sostenuta anche dal Parlamento europeo – ricorda ancora Telesca – la Commissione aveva indicato l’obiettivo di raddoppiare i fondi per Erasmus+: dai 14 miliardi dell’ultimo settennato a 30 per il prossimo.
Gli Stati membri avevano abbassato il livello d’ambizione a una ventina, ma sostanzialmente accettato l’idea di aumentare l’investimento. Deve essere chiaro che non accetteremo una revisione al ribasso di quest’obiettivo, né ipotesi di prolungare forme di mobilità digitale oltre lo stretto necessario. Perché è solo investendo sulle giovani generazioni e sull’incontro tra lingue, culture ed esperienze che può rinascere l’Europa».