Da lunedì la Corte suprema, il massimo organo della giustizia polacca, ha un nuovo presidente, Małgorzata Manowska. Classe 1964, dirige dal 2016 la Scuola nazionale per i magistrati ed è membro della Corte suprema dal 2018. Di lei si dice che sia un ottimo giudice. Forse, ma sicuro non è molto indipendente. È infatti organica a Diritto e Giustizia (PiS), il partito populista che governa dall’ottobre 2015: lo stesso del presidente della repubblica Andrzej Duda. È quest’ultimo, esercitando una sua prerogativa, che ha nominato Manowska. L’ha scelta tra una rosa di cinque candidati individuati, dopo una votazione interna, dalla stessa Corte suprema.
La nomina di Manowska segna uno strappo politico-costituzionale profondo. Tra i cinque papabili il più votato, dunque in teoria il più legittimato a guidare la Corte suprema, era stato il giudice Włodzimierz Wróbel. Ma Wróbel, al pari dell’ex presidente della corte, Małgorzata Gersdorf, è critico delle riforme che in questi anni il governo ha varato in materia di giustizia.
Per molti hanno determinato una vera e propria “cattura della giustizia”, un trascinare la magistratura nell’orbita dell’esecutivo. Duda e Manowska queste riforme le appoggiano: ecco perché il primo ha puntato senza esitazioni sulla seconda. Basta presidenti “ribelli” alla Corte suprema.
Il primo organo occupato dal PiS è stato il Tribunale costituzionale. Prima delle elezioni del 2015 il parlamento uscente doveva eleggere cinque nuovi giudici. L’allora maggioranza liberale li ha scelti senza consultare i populisti, rafforzando l’equilibro filo-liberale della Consulta polacca. È stata una scortesia politica, alla quale il PiS e Duda – quest’ultimo era in carica da pochi mesi – hanno risposto con una forzatura ancora più clamorosa.
Il nuovo parlamento a maggioranza PiS ha eletto altri cinque giudici, di orientamento conservatore. Duda li ha fatti giurare, cosa che invece aveva negato ai togati in quota liberale. Questa lotta accanita sulle nomine ha bloccato a lungo il Tribunale costituzionale, fintanto che con altre misure e altre nomine il PiS non è riuscito a controllarlo numericamente.
Poi c’è stata la cattura del Consiglio nazionale giudiziario (Krs), l’organo di autogoverno delle toghe, facilitata da una legge che ha trasferito dalla magistratura al parlamento il potere di nomina. Quando si è trattato di rinnovarne i membri, il PiS ha avuto gioco facile nell’occuparne le poltrone.
La Corte suprema era l’ultimo castello da assaltare. I populisti, guidati da Jarosław Kaczyński, il leader de facto del paese, ne hanno cambiato la composizione con una legge sul pensionamento anticipato e un’infornata di nuovi esponenti – tra questi Małgorzata Manowska – eletti dal Consiglio nazionale giudiziario. Giudici vicini al PiS, in pratica, che nominano altri giudici vicini al PiS. Ma non è bastato a creare un nuovo equilibrio nell’organo.
Così, per ammansire i giudici “ribelli” è stata creata una Camera disciplinare, anch’essa nominata dal Consiglio nazionale giudiziario. Parallelamente, sono state scritte nuove regole per l’elezione del presidente, allargando a cinque la rosa dei candidati – prima erano due – da inviare alla presidenza della repubblica, tante le volte Duda si fosse trovato costretto a scegliere il nuovo presidente tra due candidati di area non governativa.
Ora, l’arrivo di Małgorzata Manowska alla presidenza della Corte suprema spiana la strada per una sua ulteriore neutralizzazione, in attesa che maturino i tempi per il ricambio dei componenti.
L’offensiva sulla giustizia ha lacerato in questi anni la Polonia. Per i partiti dell’opposizione è il simbolo della torsione autoritaria imposta da Kaczyński. Contro le riforme si è levata la voce degli stessi magistrati. Lo scorso gennaio, in segno di protesta contro le pressioni subite dal governo, si è tenuta nel centro di Varsavia un’irrituale “marcia delle mille toghe” a cui hanno partecipato anche diversi colleghi europei, in segno di solidarietà.
È scesa in piazza – da ben prima e per ben più volte – anche la società civile. Si è mobilitata già dai tempi del caos sul Tribunale costituzionale, quando i partiti d’opposizione, storditi dalla bruciante sconfitta elettorale del 2015 (un’altra ne è arrivata alle legislative dello scorso autunno), non avevano né idee, né forza per coordinare la protesta.
La società civile ha espresso un agguerrito movimento, il Comitato per la difesa della democrazia (Kod), che per due anni ha organizzato marce e picchetti, riscuotendo un certo seguito. Poi ha perso entusiasmo, logorato da lotte intestine.
Per il governo, guidato da Mateusz Morawiecki, la riforma della giustizia è indispensabile. Tanto lui, quanto Kaczyński e Duda, ritengono che la magistratura polacca sia una casta inefficiente, incapace di sintonizzarsi con le esigenze dei cittadini e delle imprese.
Una è quella dei tempi ragionevoli del processo. In Polonia i procedimenti vanno troppo per le lunghe. Ma questa è solo la facciata tecnica della faccenda. La cattura della giustizia è da un lato una dimensione naturale del progetto egemonico dei populisti, dall’altro ha un chiaro retroterra storico-ideologico.
Il PiS vede nella magistratura la depositaria del patto del 1989 tra i comunisti e Lech Wałęsa, il fondatore di Solidarność, il glorioso movimento democratico nato nel 1980. Le due parti quarant’anni fa si accordarono per una transizione graduale. In questo modo la Polonia uscì dall’orbita di Mosca, ma ai post-comunisti fu concesso di competere nel nuovo sistema.
Kaczyński, che è stato un importante dirigente di Solidarność, sostenne quell’accordo. Poi cambiò registro, bollandolo come un odioso freno alla rinascita nazionale polacca, azionato dalla cricca dei giudici. Insomma, è giunto il momento di fare pulizia e creare una nuova classe di magistrati: si spiega anche così la partita delle nomine.
La Commissione europea l’ha sempre osservata con preoccupazione, interpretando il progetto dei populisti polacchi come una minaccia allo stato di diritto e al principio della separazione tra poteri. In questi anni Bruxelles ha avviato una serie di procedure d’infrazione nei confronti di Varsavia, che ha solo concesso ritocchi cosmetici, senza mai sospendere le riforme. La Commissione non capisce il senso democratico della battaglia per la giustizia, vuole solo ingerire: così ripete da anni l’esecutivo polacco.
La procedura d’infrazione più seria è stata quella attivata alla fine del 2017 in merito alla vertenza sul Tribunale costituzionale. La Commissione ha sdoganato la cosiddetta “opzione nucleare”, disciplinata dall’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea. Prevede la possibilità di congelare alcuni dei diritti degli Stati membri, tra cui quello di voto in seno al Consiglio europeo.
Ma tutto si è insabbiato, sia perché è mancata la volontà politica di punire la Polonia, sia perché un qualsiasi veto, posto da un qualsiasi Paese, può fermarla. E Viktor Orbán, il grande alleato di Kaczyński, ha sempre minacciato di ricorrervi, se chiamato a pronunciarsi. In questo pasticcio, emerge anche un limite strutturale dell’Ue: può sventolare il cartellino giallo, ma mai minacciare il rosso. E il giallo, a Varsavia, non fa paura.