A Galway potrebbe andare peggio, potrebbe piovere (cosa che per altro succede circa 230 giorni all’anno). A febbraio questa città di 80mila abitanti sulla costa occidentale dell’Irlanda ha raccolto il testimone (con la croata Rijeka) di Matera e Plovdiv come Capitale europea della cultura. Il 2020 doveva essere un anno bellissimo, e invece il coronavirus si è portato via tutti i sogni, l’impegno, il lavoro, i progetti. Nell’ultimo mese il team creativo alla guida della manifestazione è stato rimosso, la maggior parte dello staff è rimasta senza lavoro e forse si riuscirà a recuperare qualcosa del calendario solo in autunno inoltrato (virus permettendo).
Il motto di Galway 2020 era «Let the Magic In», facciamo entrare la magia. Il programma era ambizioso: erano previste lunghe letture dell’Odissea sulle spiagge, l’ospite d’onore sarebbe stata la scrittrice Margaret Atwood, tra gli artisti invitati c’era David Best, lo scultore americano famoso per le opere da bruciare al Burning Man.
L’istituzione della capitale europea della cultura risale al 1985, l’obiettivo è incoraggiare la vita culturale, aumentare la visibilità internazionale e lasciare una solida eredità sociale alle città coinvolte: a Matera intanto ha portato un aumento dei visitatori del 44 per cento.
«Il percorso per arrivare all’inaugurazione era stato accidentato, c’erano state complicazioni di ogni tipo, dimissioni, scandali, problemi finanziari», racconta Deirdre Falvey, che a Galway è nata e che ha coperto questa storia per l’Irish Times, «Ma sentivamo di esserci lasciati il peggio alle spalle».
Con ironia irlandese, il tema che avrebbe fatto da filo conduttore a tutta la rassegna era «Hope It Rains», speriamo che piova. Tre parole che hanno preso un significato completamente diverso il weekend dell’8 febbraio, quello dell’inaugurazione di Galway 2020.
In quel periodo il coronavirus era ancora un problema cinese e l’unico dettaglio che preoccupava gli organizzatori era il meteo. La cerimonia di apertura si era articolata in una settimana di eventi in tutta la contea, partita dalla Festa di Santa Brigida (uno dei patroni d’Irlanda) il 1 febbraio, con spettacoli itineranti ogni sera per arrivare l’8 al grande evento di luci e fuochi al South Park di Galway.
«Una cacofonia di suoni e fuoco per celebrare la fine dell’oscurità dell’inverno e la nascita di un nuovo anno», prometteva il sito ufficiale. Purtroppo, quel weekend la costa occidentale dell’Irlanda è stata colpita dalla tempesta Ciara, una delle peggiori della stagione, con forti piogge e venti a 130 km/h. Troppo pericolosa una festa in un parco affacciato sull’Atlantico, e così la cerimonia è stata cancellata.
«Quando c’è stato l’annuncio che avevamo vinto, nel 2016, la gente è corsa in strada, era un venerdì mattina, a pranzo i pub erano pieni di gente», racconta Ciaran Tierney, giornalista e digital storyteller locale. «Questo evento cambierà la città, ci dicevamo tutti, ma le promesse non erano state mantenute, già prima del coronavirus».
Come ogni organizzazione di un grande evento, anche per Galway 2020 la strada è stata piena di problemi, polemiche e difficoltà finanziarie, con l’aggravante che questa piccola comunità sentiva l’organizzazione come calata dall’alto, con poco sostegno e dialogo con artisti locali, che pure sono tanti e attivi. «Negli anni ’90 Galway è diventata una piccola Berlino, una città povera, ma piena di spazi abbandonati dove suonare, creare, immaginare», racconta Tierney.
«Il paradosso è che oggi siamo una città piena di musicisti, ma ancora senza una concert hall. Speravamo che l’evento portasse infrastrutture permanenti, ma non è successo e non è colpa del coronavirus». Nel 2018 l’Irish Times titolava: «l’implosione del progetto capitale della cultura». Il budget era la metà di quello previsto, gli organizzatori si erano appena dimessi in blocco e secondo il quotidiano irlandese il tutto mancava di una visione.
«L’opinione comune era che l’evento sarebbe stato un naufragio, invece la città è riuscita a mettere insieme un programma di tutto rispetto e a rispettare gli impegni, nonostante tutto», racconta Falvey. All’inizio del 2020 a Galway si respiravano sollievo ed entusiasmo, la brutta figura era stata evitata e la festa stava per cominciare, poi sono arrivate la tempesta e dopo la tempesta il virus.
«Nonostante i tentativi di salvare il salvabile, probabilmente il 90 per cento di quello che era stato preparato e programmato non accadrà mai, il resto sarà verso spostato verso la fine dell’anno o all’inizio del prossimo, ma quasi sicuramente senza pubblico internazionale. Che senso ha la capitale europea della cultura, se poi ci sono solo irlandesi?».
Tra i motivi di vanto del programma c’era un’installazione di luce dell’artista finlandese Kari Kola sulle montagne del Connemara. «Io ho visitato il sito quando veniva preparato, era tutto un po’ assurdo, come sempre con l’arte contemporanea, quando poi arriva la gente tutto acquisisce un senso. Ma ovviamente servivano bus, ci sarebbero stati assembramenti, così quegli spettacoli di luce il pubblico li ha visti solo in webcam ed è tutto davvero molto spettrale».
Non è una grande consolazione per gli abitanti di Galway che un destino gemello abbia colpito Rijeka. Stessa dinamica, stessi effetti: il programma per ora è saltato, gli eventi che potranno essere salvati saranno recuperati alla fine del 2020 o all’inizio del 2021, ma anni di preparazione e investimenti sono andati in fumo.
«Sembra un secolo fa che la Lonely Planet ci inseriva tra le mete da visitare per il 2020», è il commento amaro di Deirdre. «In questo momento, l’argomento di ogni conversazione sono la sfortuna e il cattivo tempismo che abbiamo avuto».
Per Galway il disastro sull’anno da capitale della cultura fa parte di un problema più grande e generale, il crollo del turismo, che qui è in gran parte composto da stranieri che vengono per imparare l’inglese e che quest’anno con ogni probabilità in Irlanda non si vedranno. «La cosa peggiore», mi dice Ciaran prima di salutarci, «è che i pub rimarranno chiusi fino ad agosto»