Sono i camioncini bianchi che accostano davanti casa per lasciarci un pacco. I corrieri. Un click sul nostro computer, un blip sul loro dispositivo. I fantasmi delle consegne. Quelli che neanche nell’emergenza coronavirus hanno potuto fermarsi. Ken Loach, regista inglese da sempre attivo nel racconto della working class, li rappresenta nel suo “Sorry we missed you”, coproduzione angloforancese e premio del pubblico per il miglior film europeo al Festival internazionale del cinema di San Sebastián. Un capolavoro nato dalle testimonianze dei lavoratori della gig-economy.
Il tempo del lavoro coincide con la vita. Ricky Turner (Kris Hitchen) vende l’auto della moglie per pagare la prima rata di un camioncino per le consegne. «Voglio essere il capo di me stesso», si ripete. La vita da freelance è però un’illusione. Lavora 15 ore al giorno. Non ha garanzie. Se si ammala paga l’assenza 100 sterline. Autonomo, ma parte di un franchise, che non permette errori o pause.
Consegnare pacchi a ritmi inumani e pregare i clienti per una firma (senza la quale non si è pagati), è ora tutta la sua vita. Non c’è tempo nemmeno per andare al bagno. Il sistema ha la soluzione facile: una bottiglia a portata di mano e si continua a lavorare, ma il tempo non basta mai. E quando a Ricky inizia a mancare il respiro, tutto il resto crolla. La famiglia viene giù con lui. In un vortice di stress e frustrazione.
Il lavoro prima, il lavoro ora. Le premesse lavorative di Ricky sono una promessa di schiavitù. La gig-economy non è un dramma, ma una tragedia, se portata all’eccesso. Il finale è scritto, ma non ve lo sveliamo. Anche i peggiori tra gli eventi sono prevedibili e inevitabili. Il disincanto di Loach sta nell’adesione silenziosa dei personaggi. Accettano tutto. Si urlano contro. Il conflitto è interno, conseguenza di un sistema invece indiscusso. Persino quando la situazione è disperata, bisogna andare a lavorare. Non c’è coscienza critica perché non c’è il tempo di maturarla.
Per Loach la gig-economy non distrugge il lavoro, ma l’uomo. Famiglia, affetti, persona. L’intero sistema di vita crolla. Una moderna schiavitù senza vie d’uscita. Il figlio liceale di Ricky si ribella, la figlia minore fatica a dormire, la moglie sfiora la disperazione. Lavorano tutti. Non vive nessuno. «E le 8 ore lavorative?», chiede una delle anziane signore a cui la moglie di Ricky fa assistenza. La voce di un’altra generazione, convinta che le conquiste di un tempo restino immutate.
Nel racconto di Ken Loach il progresso si rivela un inganno. A dettare gli ordini di una vita insostenibile è infatti un dispositivo elettronico. Ognuno ha il proprio. È il palmare su cui firmiamo alla consegna. «Tu ti prendi cura di lui», gli comunica il responsabile, «lui si prende cura di te». Significa che quando Ricky viene rapinato e picchiato (in orario di lavoro) deve tornare alle consegne il giorno successivo, ma anche ripagare il macchinario danneggiato. Il business è tuo, il franchise è loro.
Nella prigionia dei giochi di parole. All’inizio di “Sorry we missed you” lo schermo resta nero, mentre si alternano due voci. È il colloquio di Ricky. «Ho fatto tutti i lavori possibili. Anche scavare tombe», racconta. Lavori faticosi che non sopporta più. Da qui la speranza di un’autonomia. «Ti sei arreso?», gli chiede il responsabile del franchise. Perché desiderare una vita e un lavoro che non ti riduca uno zombie, è arrendersi.
La relazione lavorativa, in assenza di tutele, si regge sui giochi di parole. Non si è assunti, si «sale a bordo». Non si lavora “per”, ma “con”. Copywriting dei diritti. Ricky sogna di comprare casa. Di dare il meglio ai figli. Ma i tempi sono cambiati. E l’adolescente irruente è più disincantato del padre. «Una laurea? Per cosa?». Conosce l’assenza di futuro. L’ascensore sociale va giù. Porta al livello delle tombe.
“Sorry we missed you” non ha una fine. Una via di fuga, o l’ombra di una rivolta, se la permettono solo film surreali come “Parasite” e “Joker”. A Ken Loach, ultimo realista, non resta che dissolvere l’immagine e lasciare che il racconto continui nella realtà. Si consegna allo spettatore. Perché di “Ricky” ne incontriamo ogni giorno, e non possono più esserci indifferenti.