Nel mondo di prima, il comico più ricco d’America si esibiva in un teatro di Broadway, a New York. Jerry Seinfeld potrebbe non lavorare mai più: quando aveva trentacinque anni s’inventò Seinfeld, una sit com che nel mondo di oggi andrebbe su Netflix e avrebbe più recensioni entusiaste che spettatori distratti, e negli anni Novanta andava in prima serata sulla Nbc e la guardavano trentotto milioni di persone (cifre da mondo di prima-ancora-che-prima, di quando il cambio del dollaro era a duemila lire). I guadagni sono conseguenti.
Tra il mondo di prima-ancora e quello di adesso, dunque, faceva la cosa più vicina al non lavorare, per un multimilionario dello showbusiness: un monologo a teatro. Due spettacoli al mese (meno di Gianni Morandi al Duse di Bologna, ma pure di Bruce Springsteen nella stessa Broadway), con abbastanza richiesta da spostare sempre un po’ più in là la data finale (come Bruce e come Gianni), epperò interrotto dall’arrivo del virus prima che la data finale arrivasse (come Gianni; Bruce aveva già finito).
In attesa di tornare sul palco (non c’è dubbio che accadrà: il sessantaseienne Seinfeld, come il settantacinquenne Morandi e il settantenne Springsteen, appartiene alla generazione degli infaticabili), il monologo è su Netflix, e a vederlo nel mondo di adesso sembra uno scherzo.
Nel mondo di prima, Jerry Seinfeld andava fuori a cena e il sindaco di Milano perorava la causa degli aperitivi. A vederla nel mondo di adesso, la prima metà del monologo di Seinfeld somiglia un sacco a «Milano non si ferma». L’unico format televisivo che davvero vorrei vedere è un filmato delle riunioni impanicate in remoto, a marzo, tra i dirigenti di Netflix.
«Gli abbiamo dato un sacco di soldi per i diritti di messinonda, ma tutta la prima mezz’ora è sulle piccole scocciature di organizzarsi per uscire la sera, ceniamo prima o dopo il cinema, hai preso i biglietti, andiamo in quel ristorante, quel ristorante fa schifo, non sopporto i miei amici cui sono seduto vicino adesso a teatro, andiamo in quattro con una macchina sola: insomma, siamo sicuri che non sembri un alieno al pubblico in pigiama quarantenario da settimane?».
Ieri, il sindaco di Milano ha rampognato via Instagram quelli che fanno l’aperitivo ai Navigli. Sono due minuti, in cui a un certo punto infila anche la contrizione «Potevamo essere inconsapevoli due, tre mesi fa: e anch’io lo sono stato»: giacché, come a Woody Allen toccherà per sempre rispondere a domande su Mia Farrow, a Beppe Sala toccherà per sempre rispondere ai rinfacci su «Milano non si ferma». Sono due minuti divisi in due.
Nella prima parte, il sindaco dice che «le immagini di ieri lungo i Navigli sono vergognose» (la vergogna, il più sopravvalutato dei moti dello spirito), che lui sta «dalla parte di quelli che vanno a lavorare, non a divertirsi», e che insomma siamo (mi ci metto in mezzo anche se preferirei delle punizioni corporali a un aperitivo sui Navigli) dei capricciosi incoscienti che s’approfittano della fase due senza capire ch’essa esiste solo perché «siamo in una profondissima crisi socioeconomica: Milano ha bisogno di tornare a la-vo-ra-re» (scansione delle sillabe come da audio originale).
A quel punto, confesso, ero smarrita. Non è possibile che il sindaco non si renda conto che, per ogni tot clienti che, beata gioventù, vanno a fare l’aperitivo, c’è un barista che lavora. In generale, a ogni divertimento di uno corrisponde il lavoro d’un altro (persino le popstar lavorano, persino i calciatori).
E infatti se ne rende conto, giacché nella seconda parte arriva la minaccia minacciosa: se non la smettiamo (dico a voi, gioventù) d’affollarci, «chiudo i Navigli. E poi lo spiegate voi, ai baristi, perché il sindaco non gli permette di vendere». E a quel punto io ero più smarrita di prima.
Quindi il sindaco mira a un mondo ideale in cui i bar siano aperti e la clientela sia in modica quantità. Come si raggiunge, questo risultato? Col numero chiuso sui Navigli come nelle facoltà di Medicina? Con una app (esiste per i supermercati, magari si può adattare agli spritz) che ti dica quanta gente c’è già lì e a che ora ti conviene uscire?
C’è un passaggio del monologo di Seinfeld che sembra quella canzone che scrisse Lorenzo Jovanotti da giovane, quella che fa «Quando sarò vecchio, sarò vecchio: nessuno dovrà più venirmi a rompere i coglioni».
Dice Seinfeld che è contento d’aver passato i sessanta, perché è l’età in cui, se t’invitano da qualche parte, non senti il bisogno di trovare scuse, inventare impegni pregressi, giustificarti. Dici semplicemente: no.
Avendo passato i sessanta verso i ventinove, mi offro come consulente gratuita al sindaco. La principale soluzione che ho da suggerire è: la controra. Noi anziane siamo esperte nell’andare al cinema all’ora di pranzo, nel fare il brunch alle nove o l’aperitivo alle sei, nell’organizzarci la giornata in modo da incontrare meno gente possibile, e in particolare nessuno che possa romperci i coglioni.
Non ci affolliamo, non ci contagiamo, e gli esercizi commerciali non perdono il nostro incasso. Certo, resta da risolvere il problema di tutti quelli che, nel mondo di prima come in quello di adesso, sono preda di quel difetto anagrafico che li rende convinti che i bar servano a socializzare.