Da un paio d’anni, ciclicamente, prima sul caso Diciotti, poi sul caso Gregoretti e ora sul caso Open Arms, politici e giornalisti si ritrovano a discutere della questione se un ministro dell’Interno abbia o meno il diritto di tenere decine di naufraghi ammassati su una nave impedendo loro di sbarcare, e perlopiù si rispondono pure di sì, semplicemente perché un simile comportamento corrisponderebbe al suo programma di governo.
Con i cosiddetti garantisti a difendere la facoltà del potere esecutivo di conculcare i più elementari diritti individuali in nome del primato della politica e con i cosiddetti giustizialisti a sostenere la stessa tesi quando il ministro dell’Interno è loro alleato e a volerlo mandare a processo quando, cambiato il governo, non lo è più.
Dibattito deprimente, ma soprattutto preoccupante. Perché anche questa volta, a proposito del caso Open Arms, come in tutti i casi precedenti, in pochi sembrano rendersi conto del principio, e del precedente, che si rischia di affermare: oggi a farne le spese sono i diritti e le libertà fondamentali dei profughi (tema che dovrebbe bastare a svegliare dal loro torpore i numerosi custodi della Costituzione oggi assopiti, a meno che i migranti non siano già divenuti ufficialmente «untermenschen»), domani potrebbe toccare a chiunque altro. Tanto più considerato quanto nel frattempo, causa pandemia, i poteri dell’esecutivo abbiano già subito una considerevole estensione, al contrario dei relativi controlli e contrappesi.
Questa dovrebbe essere la prima e unica preoccupazione al centro della discussione, oggi come ieri. Ma non c’è niente da fare, la natura pavloviana del nostro dibattito pubblico prevale su tutto.
Così, dopo che i senatori di Italia Viva nella giunta per le immunità non hanno partecipato al voto riguardante Matteo Salvini, ieri su Repubblica è comparsa l’intervista di Matteo Renzi, che rivendica la scelta ma al tempo stesso non si sbilancia sul voto in aula, rifugiandosi nel classico: «Decideremo in base alle carte». Domanda: «Avete avuto tre mesi per vedere le carte. Non era abbastanza?». Risposta: «E impiegheremo il prossimo per decidere come votare».
Difficile immaginare più degna replica alle parole del presidente del Consiglio riportate dallo stesso giornale nel retroscena alla pagina precedente. Questo l’incipit: «Quando parla dei continui sgambetti di Matteo Renzi, Giuseppe Conte diventa sprezzante. Mai, mai avrebbe immaginato di vederlo andare in soccorso di Matteo Salvini in giunta. Quello che ha trattenuto in mare donne e bambini, il nemico numero uno di Palazzo Chigi». Così avrebbe detto, e c’è davvero di che stropicciarsi gli occhi, il capo del governo di cui Salvini faceva parte nel momento in cui tratteneva in mare donne e bambini.
Lo stesso Giuseppe Conte che, nel caso delle donne e dei bambini trattenuti sull’incrociatore Diciotti, metteva a verbale, in un documento allegato alla memoria difensiva di Salvini il 7 febbraio 2019: «Sento il dovere di precisare che le determinazioni assunte in quell’occasione dal ministro dell’Interno sono riconducibili a una linea politica sull’immigrazione che ho condiviso nella mia qualità di presidente nel Consiglio con i ministri competenti, in coerenza con il programma di governo». Lo stesso Giuseppe Conte che martedì, sempre secondo il retroscena di Repubblica, così si sarebbe sfogato: «La verità è che per Renzi il merito non conta».
Una critica che si sarebbe fortemente tentati di condividere, ma certo non con il capo del governo che ha avallato e difeso fino all’ultimo, nel merito, ciascuna di quelle scelte, e anche di più: dalle arbitrarie chiusure dei porti ai disumani decreti sicurezza. Tanto meno con tutti coloro che oggi lo sostengono a Palazzo Chigi senza dire una parola su questo, e però pretendono di presentarcelo come «punto di riferimento fortissimo per tutti i progressisti».
Che altro dire? Mi rendo conto che la semplice invettiva contro tutti i protagonisti del dibattito è un esercizio sterile e una posa fin troppo facile, che rischia di scivolare in un’altra forma di anti politica. E davvero non abbiamo bisogno di nuove dosi di un simile virus, tanto più che la storia degli ultimi decenni dimostra ampiamente come il nostro organismo nazionale non sia in grado di sviluppare il minimo anticorpo.
È giusto dunque concludere con uno sforzo di lucidità e responsabilità, formulando una critica costruttiva e indicando una possibile via d’uscita. Non essendo capace di individuarne alcuna, lascio qui uno spazio bianco a disposizione del lettore.