Viviamo tempi strani. Stranissimi. Illogici. Abbiamo le scuole chiuse da tempo immemore e non si capisce neppure se, come e quando riapriranno. Abbiamo le famiglie disperate che scendono in piazza perché siano riaperte almeno a settembre. Una follia. Tempi strani. Stranissimi. Illogici.
E in questo scenario drammatico cosa accade? Un attacco ad alzo zero alle scuole paritarie, una sorta vendetta post-bellica, verso istituti che finora hanno svolto il loro lavoro con diligenza.
Perché? Perché questa vena carsica, tartufesca, aggressiva che rispunta ogni volta che ve ne sia occasione?
Affrontiamo allora, una volta per tutte, le questioni poste dai critici, prima di capire che cancellare le paritarie significa impoverire e ingrigire il Paese da ogni punto di vista.
Prima accusa: la scuola, secondo la Costituzione, dev’essere statale.
In quale Costituzione? In quella italiana è scritto, al primo rigo dell’art. 33, in maniera solenne «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento».
Perciò l’unica parola che qui risuona è libertà, non altro. Prosegue l’articolo: «La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi».
Lo Stato istituisce le scuole, ma non c’è scritto che debba avere il monopolio. È evidente che l’intento preminente dei Costituenti è di dare al paese un sistema scolastico che garantisca l’istruzione per tutti.
Prosegue ancora l’articolo: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».
E qui scatta l’accusa numero due, che le scuole paritarie non dovrebbero avere aiuti dallo Stato. Su queste cinque parole è costruita la fustigazione delle scuole paritarie.
Nel dibattito alla Costituente il concetto di «senza oneri per lo Stato» era però di tutt’altro tenore, già evidente nelle parole del proponente Corbino: «Noi non diciamo che lo Stato non potrà mai intervenire a favore degli istituti privati; diciamo solo che nessun istituto privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello Stato. È una cosa diversa: si tratta della facoltà di dare o di non dare».
Chiarissimo. Sulla vicenda una parola definitiva l’ha già scritta il costituzionalista Stefano Ceccanti: la Costituzione italiana ama la libertà, non il monopolio statale dell’istruzione.
Superiamo allora questi aspetti, per altro già definiti con chiarezza dalla legge 62 del 2000, che configura un servizio pubblico di istruzione in cui lo Stato è sia regolatore che gestore, perciò prevedendo una pluralità di soggetti che offrano servizi educativi, e veniamo a un concetto chiave: la differenza tra pubblico e statale.
Questo è il nodo di tutto. Pubblico non necessariamente significa statale. Possiamo avere, e abbiamo, soggetti che svolgono un servizio pubblico pur non essendo statali.
Lo Stato non è un ordine superiore, non è sacro, quello che conta è il pubblico, cioè l’interesse e le finalità pubbliche.
Una volta che le scuole paritarie svolgano i programmi decisi dal Ministero della Pubblica Istruzione; utilizzino insegnanti comprovati dalle regole pubbliche, rispettino in tutto e per tutto quanto viene dettato dal pubblico (e anche senza fine di lucro) perché devono essere considerate meno titolate delle scuole statali nello svolgimento, appunto, delle finalità pubbliche?
Anzi, se si volesse prendere lo spirito costituzionale qual esso è, cioè amante e difensore della libertà di scienza e di educazione, dovremmo fare un’altra cosa.
Dovremmo dare un voucher alle famiglie e loro sceglieranno se utilizzare questo voucher iscrivendo i loro figli a una scuola statale o a una scuola paritaria.
Questa è la massima coerenza. L’onere per lo Stato è identico, perché il voucher varrebbe gli stessi soldi, perciò si potrebbe, appunto senza oneri aggiuntivi per lo Stato, utilizzarlo nelle paritarie o nelle statali.
Chi meglio offrirà i servizi educativi (a parità di spesa) avrà più iscritti. Secondo voi le famiglie cosa sceglieranno?
Non importa quello che scelgono, importa che scelgano. Perché sia detto in maniera chiara la tutela dei figli, inclusa l’educazione, anzi a cominciare dall’educazione, è dei genitori, della famiglia, non dello Stato.
Non è lo Stato che deve decidere il futuro dei bambini, ma le loro famiglie. Questo è un principio basilare della democrazia.
Se dovessimo decidere che il titolare dei diritti educativi è lo Stato saremmo in un altro regime. Lo Stato, come dice la Costituzione, deve garantire l’istruzione per tutti – diritto sacrosanto – ma non deve sostituirsi alle famiglie nella scelta educativa.
Non ci sono stime analitiche sul costo del singolo insegnamento o del singolo studente, però le stime Ocse, non il primo che passa a occuparsi di economia, dicono che in Italia il costo di portare un bambino al diploma, perciò tutto il suo corso di studio, è di 89mila euro e che per portarlo fino alla laurea ci vogliono 145mila euro.
Siamo sicuri che il sistema statale sia così efficiente, viste queste cifre? Un alunno costa in Italia 11mila euro all’anno. Siamo sicuri che con questa cifra nessuno riesca a offrire di meglio?
Oggi le famiglie con la fiscalità generale pagano l’istruzione di tutti e poi con la retta privata pagano anche quella dei loro figli. Semmai è una discriminazione rovesciata.
Ma andiamo al cuore dell’articolo 33 della Costituzione, «ne è libero l’insegnamento»: c’è una professione di libertà più grande di questa? L’idea è che un paese democratico vive della pluralità delle voci, la cultura vive non di pensiero unico, ma di pensiero, che per definizione non è mai unico.
Detto in altre parole, il sistema educativo di un paese vive meglio tanto più rigogliosa e varia sia la sua offerta formativa. C’è qualcuno che pensa che il monopolio dell’istruzione crei più sapere del pluralismo?
Veniamo all’accusa numero tre: «sono diplomifici», cioè accusa di scarsa qualità. E qui c’è un grande malinteso.
Stiamo parlando delle scuole paritarie, non dell’offerta privata di diplomi, su cui, invece, andrebbe applicato un severissimo controllo.
Le scuole paritarie offrono lo stesso excursus di insegnamento di quelle statali, niente di diverso, non offrono due anni in uno; non offrono recuperi anno; non offrono niente che non sia la pura e semplice esecuzione dei contenuti ministeriali, ovviamente cercando di farlo al massimo livello di qualità e di attenzione.
È un ragionamento da “straw argument”, cioè si prendono i “diplomifici” come fossero le scuole paritarie, e si attaccano le paritarie, che sono tutto tranne che “diplomifici”.
Alla fine, al di là di tutto, quello che emerge da questo attacco alle paritarie è un’idea di paese da brivido. Un Paese in cui tutto è devoluto, demandato, trasferito allo Stato che, per altro, non è che quotidianamente faccia buona prova di sé: ad esempio, nella riapertura post-virus è tutto aperto, ma le uniche cose che sono ancora chiuse, le scuole, le università, gli stessi uffici pubblici, i tribunali, sono tutti statali.
Sottotraccia, e talvolta persino sopratraccia, c’è l’idea che il pensiero non serva. Si crede che le “competenze”, secondo il grigiore mentale di chi le ispira, coincidano con il sapere.
È un errore di prospettiva, oltre che di fatto. Abbiamo bisogno proprio del sapere, non (solo) della competenza. Perché il sapere implica un metodo, oltre che un contenuto; implica una capacità di conoscenza di più discipline, unica strada per arricchire la cultura personale.
Le competenze non sono montagne da scalare, ma pianure da percorrere; le competenze si aggiornano e passano. Il sapere resta.
Sembra quasi che le scuole paritarie siano il bersaglio prediletto proprio per queste ragioni: perché credono nella formazione delle persone e non (solo) alla distribuzione delle competenze; perché inseriscono l’insegnamento dentro una cornice culturale più grande.
Sembra quasi che il ricorso al monopolio dello Stato sia la scorciatoia per ottenere la neutralità dei valori. Sembra quasi che ci sia la rinuncia a formare le generazioni future secondo la storia che condividiamo da secoli. Viviamo tempi strani. Stranissimi. Illogici.