Confesso d’essermi, da profondamente superficiale quale sono, inizialmente concentrata soprattutto sui pavimenti e sugli infissi. Le case, nelle dirette Instagram delle celebrità, nei collegamenti da casa coi talk dei professionisti dell’opinione, mi sembravano tutte così implacabilmente brutte che i libri apparivano come il minore dei problemi. Vuoi mettere il poster di Lenin che ha la giovane promessa dell’economia. Vuoi mettere le statue kitsch nella villa dell’imprenditrice.
Non ero la sola a preoccuparmi dei complementi d’arredo: all’inizio di aprile Michael Gove, politico conservatore inglese, si collegava da un qualche punto di casa propria con un programma televisivo. L’internet si concentrava sulle tende alla finestra dietro di lui, dicendo che sembravano fatte di gorgonzola; la moglie (Sarah Vine, editorialista del Mail) twittava che non sarebbe mai più riuscita a guardarle come prima.
So esattamente quando ho notato i primi volumi. Il 31 marzo, dopo tre settimane di clausura, quando Rai 1 ha assemblato un programma coi filmati che ogni cantante aveva mandato da casa (per inciso: si tornerà mai più indietro, ora che le reti televisive hanno scoperto che si può produrre azzerando i costi? «Hai una nuova canzone da promuovere? Fatti un bel filmato col telefono e mandamelo, sai quanto mi costano troupe e collegamento?»).
In certe case c’erano certe tende che pareva di stare in un quattro stelle vicino alla stazione (non gorgonzola: più camembert), ma poi è arrivato il filmato di Mahmood. Suonava nel salotto di casa, e nella parte sinistra dello schermo, in basso, si vedeva benissimo. Era lì, a testimonianza d’un’epoca e d’una classe media che non esistono più: l’enciclopedia Treccani.
Nei giorni successivi, i miei interlocutori si sono divisi in due gruppi. Quelli che avevano dato almeno un esame al Dams, e ai quali quindi potevo dire che, sul giovane cantautore mezzosangue con l’enciclopedia probabilmente comprata a rate, Dwight Macdonald avrebbe di certo scritto un capitolo di Masscult e midcult; e quelli cui il suono “mcdonald” evoca solo bocconcini di pollo fritti, e ai quali ho quindi raccontato la struggente storia di quando, negli anni 70, a Bologna c’era un giro di crudeli truffe che vendeva enciclopedie promettendo che l’acquisto garantisse ai piccini di casa un provino allo Zecchino d’oro: chissà se anche la mamma di Mahmood l’aveva comprata per quello.
Il giudizio sui libri esibiti dagli esseri umani per sembrare migliori precede l’esistenza dei social di fotografie (la biblioteca di compensato davanti alla quale Silvio Berlusconi dichiarava il proprio amore per l’Italia), e tuttavia in essi conosce il proprio picco. La fotomodella con pretese contenutistiche che si fotografa con un Meridiano, la più illeggibile delle edizioni (fa tantissima scena ma, al terzo sfoglio, le pagine si sbriciolano); l’attrice stufa dei ruoli da bellona che s’immortala sì discinta a letto, ma con un Tolstoj buttato lì con accurata accidentalità; la p.r. in bikini con un Gino Strada poggiato sullo stomaco. Dimmi con che volume ti fotografi, e ti dirò che mercato vuoi conquistare.
Tuttavia, non tutti i posizionamenti riescono allo stesso modo. Il 30 aprile, il New York Times pubblica un articolo intitolato «Cosa rivelano le librerie della gente famosa», e il primo dettaglio evidenziato è che Cate Blanchett, in collegamento col programma di Colbert, ha dietro di sé venti volumi dell’Oxford English Dictionary. Giacché nella signora Blanchett tutto – gli zigomi, la camicetta, gli occhiali – è scicchissimo, noi profondamente superficiali non pensiamo «L’ha comprato per fare il provino allo Zecchino d’oro», bensì: «Ah, finalmente una persona seria che non s’accontenta dei dizionari che trova su Google».
Torniamo a casa Gove/Vine. È passato un mese dal gorgonzola, e lo sventurato si collega con una rete televisiva da un’altra stanza. Per evitare di mostrare altri complementi d’arredo da caseificio? Perché il wifi di qua prende meglio? Solo gli storici ci sveleranno questi dettagli. Fatto sta che dietro di lui ci sono gli scaffali di libri che causeranno la rissa attualmente in corso sui giornali inglesi. Tra un libro di storia e l’altro, ce n’è uno di David Irving, storico negazionista. Come sempre accade quando l’internet si divide in fazioni, esse sono opposte ma identicamente sceme.
Il primo a gridare all’impresentabilità culturale è Owen Jones, editorialista del Guardian (giornale autonominatosi custode della morale presentabile). Il suo vicino di editoriali Hicham Yezza la prende bassissima: dice che, avesse dovuto indovinare, avrebbe detto che era casa di Andres Breivik (l’estremista di destra norvegese che nel 2011 ammazzò 77 persone). A Newsnight, programma della Bbc, interviene (con astute luci che oscurano lo sfondo ed eventuali scaffali compromettenti) la scrittrice Elizabeth Day, che capisce il bisogno di leggere gente impresentabile, ma mica poi puoi tenertela sugli scaffali: «Ho letto il Mein Kampf, ma non lo vorrei nella mia libreria, perché avercelo dice qualcosa di me». Dipende: è uno scaffale impolverato, o è quello che tieni sul comodino quando t’instagrammi a letto?
Quelli che difendono Gove sono altrettanto deprimenti. Il nipote dello storico ebreo dice che anche suo nonno aveva libri negazionisti, gli servivano per ragioni di studio; l’editorialista del Times spiega che anche lei avrebbe comprato i libri di Irving se avesse dovuto scrivere della causa per diffamazione che intentò negli anni 90; secondo quello del Telegraph, i politici e gli storici devono leggere libri «di persone cattive» (giuro, formulato così, neanche fosse una fiaba della buonanotte per bambini non sveglissimi) per essere consapevoli dei mali del mondo; è tutt’un gigantesco «signora maestra, ho la giustifica». L’unico spiritoso è Stephen Pollard, direttore del Jewish Chronicle, che fa presente che lui possiede due Irving, un Hitler, «e, quel che è più grave, un libro di discorsi di Jeremy Corbyn».
Il libro che ha mandato al rogo la reputazione di Gove s’intitola The War Path. In Italia non è tradotto. Ne sono però stati pubblicati altri di Irving. Alcuni dei quali, nelle loro prime traduzioni, erano curati da Fruttero e Lucentini. C’è stato un tempo in cui alle persone perbene era consentito non solo leggere un po’ quel che volevano, ma anche pubblicare roba con cui non essere d’accordo.