La fase due in Italia è iniziata, il paese si appresta a ripartire, il decreto Rilancio ha stanziato 3,2 miliardi per la sanità, ma i medici specializzandi decidono di scendere in piazza. Stamattina davanti a Montecitorio si raduneranno i membri di undici associazioni, tra cui l’Associazione Liberi Specializzandi, Anaao Giovani e Federspecializzandi.
Non sono sufficienti, dicono, i 95 milioni per finanziare 4.200 contratti di specializzazione in più che il governo ha messo in campo. «Valgono per un solo ciclo, quello che inizia l’anno prossimo, ma servono più risorse e borse per rispondere ai bisogni», spiega a Linkiesta Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Anaao.
«Puntiamo il dito contro l’assoluta assenza di provvedimenti che risolvano definitivamente le annose problematiche sull’accesso alle scuole di Medicina e chirurgia prevedendo un maggior numero di posti rispetto a quello attuale e che cancellino l’imbuto formativo che di fatto limita l’accesso ad una scuola di specializzazione, titolo obbligatorio per poter partecipare ad un concorso pubblico», scrivono gli specializzandi.
Con 3.500 letti in più nelle terapie intensive italiane varati dal decreto il sistema sanitario ha bisogno di acquisire nuovi specialisti, fra anestesia e rianimazione, medicina di urgenza, medicina interna, malattie infettive e pneumologia. «Soprattutto queste ultime due specialità sono state massacrate negli ultimi anni. Per le malattie infettive si è passati da una unità operativa ogni 500mila abitanti ad una su 1 milione. Abbiamo visto quanto questa organizzazione della rete ospedaliera si sia dimostrata inadeguata per rispondere a emergenze come il Covid-19», dice Palermo.
Ma anche con l’incremento previsto dal decreto i posti non sono comunque abbastanza. Oggi le borse di specializzazione strutturali, cioè quelle che vengono rifinanziate automaticamente, sono circa 8200 sul territorio nazionale. Un altro migliaio di contratti sono finanziati una tantum con la legge di bilancio, e poi ogni anno fra gli 800 e i 1000 contratti di formazione vengono finanziati dalle regioni, per un totale di circa 10mila. A questi si sono aggiunti i 4.200 stabiliti nel decreto rilancio, arrivando a quota 14.500, cui si aggiungono 1500 posti del corso di formazione per medicina generale.
«Il problema è che al concorso partecipano circa 21mila neolaureati», spiega Palermo. Con l’attuale offerta formativa, fra quella specialistica e di medicina generale, fra i 5 e i 6mila neolaureati rimarranno senza una prospettiva di formazione nel 2020. E l’anno prossimo sarà ancora peggio, poiché ad oggi è previsto il finanziamento per un numero di borse poco sopra le 8mila unità, mentre ne servirebbero 17mila.
«Allo stato attuale, almeno 10mila medici non verranno formati dal Paese che è lo stesso ad avergli garantito, sei anni prima, un percorso formativo che a questo punto si definirebbe incompleto», proseguono le associazioni. «Un’emergenza come questa, tra cinque anni, avrebbe una storia completamente diversa, gli ospedali non riuscirebbero a garantire neanche la metà dello sforzo e del lavoro di questi giorni, a causa della carenza di personale medico specialistico».
E quel che è peggio è che, invece, si pensa ad ampliare il numero di ingressi alla facoltà di medicina. «Attualmente abbiamo 13.500 studenti, ma bisogna considerare che, quando fra 11 o 12 anni entreranno nel mondo del lavoro, la richiesta di medici sarà molto più bassa. A fronte di una media di 2-3mila uscite per pensionamenti all’anno, si rischia di laureare 4 o 5mila medici in più che in Italia non troveranno posto. Considerando che la formazione di ogni medico costa 250mila euro per l’intero corso di studi, a quel punto converrebbe fare un accordo con l’europa per farseli finanziare», dice Palermo.
Infine, gli specializzandi chiedono la riforma del decreto 386/1998, quello che regola il percorso di specializzazione. La richiesta è di passare da un contratto di formazione ad un contratto di formazione-lavoro, che consentirebbe loro di acquisire una formazione concreta, sul campo, nelle strutture della rete ospedaliera, nei cosiddetti “teaching hospitals” che sono diversi rispetto ai policlinici universitari, dove manca la ricchissima offerta in termini di casistica e di centinaia di migliaia di interventi chirurgici che gli ospedali tradizionali offrono.
«Il contratto di formazione-lavoro deve essere collegato all’area della dirigenza sanitaria, perché il 70% dei futuri neo specialisti andrà a lavorare nel servizio sanitario nazionale. Avere da subito un contratto che possa unire l’esperienza lavorativa alla previdenza, l’assicurazione e le tutele sindacali, è un elemento che verrà a vantaggio del 70% dei colleghi che sceglieranno di lavorare per il SSN», conclude Palermo.