Negli ospedali va meglio. Le terapie intensive e sub-intensive accolgono meno pazienti gravi e, con il rallentamento dei contagi, i reparti si stanno riorganizzando per affrontare la cosiddetta “fase due” dell’emergenza coronavirus. Ma come lo stanno facendo? Il ministero della Sanità ha alcune indicazioni, e diverse regioni si sono attivate per dare istruzioni alle strutture in tal senso.
Dopo una fase uno che conta oltre 30mila morti (di cui 160 medici) e una tragedia quotidiana in corsia per quasi due mesi, la priorità è evitare non solo che gli ospedali si sovraccarichino, ma anche che tornino luoghi di contagio. «Come ha detto l’Organizzazione mondiale della sanità, gli ospedali con i nuclei familiari e le Residenze per gli anziani sono i luoghi a partire dai quali l’epidemia si è diffusa», ricorda a Linkiesta Carlo Palermo, segretario dell’Anaao, il sindacato dei medici.
«La fase più critica è stata nel primo mese dell’emergenza. In Lombardia i numeri sono stati spaventosi: quasi 4.400 malati in terapia intensiva Covid, un numero enorme. Ci sono stati momenti tra marzo e aprile in cui nello stesso giorno c’erano 1500 ricoverati, e si era costretti a intubare 50 malati al giorno», dice a Linkiesta Emanuele Catena, primario di terapia intensiva all’ospedale Sacco di Milano.
LA RIORGANIZZAZIONE
Posta la possibilità di una seconda ondata epidemica, occorre essere preparati. Proprio il Sacco è stato tra i più pronti a gestire l’emergenza, essendo specializzato nelle malattie infettive. La sua struttura a padiglioni, risalente ai primi del Novecento, «sarà fondamentale durante la fase due, perché consente di tenere ben separati i percorsi all’interno dell’ospedale tra i malati Covid e quelli non contagiati», spiega il primario.
La partita dei percorsi distinti è infatti quella più importante da giocare. Servono aree autonome, attrezzature divise, persino personale indipendente tra le varie aree dell’ospedale.
Per fare tutto questo serviranno ingenti investimenti. «Abbiamo necessità di garantire la funzionalità di questi ospedali, non solo dei posti letto, ma di medici e infermieri con incarichi e contratti stabili. Servono almeno 10mila medici per gestire i bisogni», spiega Palermo. «Serviranno nuovi fondi anche per la formazione post laurea, soprattutto di anestesisti, internisti, infettivologi, pneumologi, operatori di pronto soccorso, radiologi, biologi, chimici per la piena funzionalità dei laboratori», aggiunge il segretario del sindacato dei medici.
Mercoledì sera, il ministro Roberto Speranza ha presentato le misure per la sanità contenute nel nuovo “decreto rilancio” da 55 miliardi appena varato dal governo. Sono previsti l’assunzione di 9600 infermieri, oltre 11mila letti di terapia intensiva in più, 240 milioni per nuove assunzioni, 190 milioni per incentivi a medici, infermieri e personale sanitario, più 4200 nuove borse di specializzazione.
L’ESEMPIO DEL SACCO
Il Sacco a fine mese inaugurerà una nuova terapia intensiva con ulteriori 10 letti che si sommano ai 31 già presenti. Merito di Ceetrus, società del campo immobiliare che con una donazione di 3 milioni sta provvedendo alla ristrutturazione degli spazi. «Quando è diventato evidente lo stato di emergenza in cui versava la Lombardia già dai primi di marzo, abbiamo deciso di intervenire con un gesto importante a supporto di una struttura ospedaliera pubblica», dice a Linkiesta Marco Balducci, general manager di Ceetrus Italy.
La nuova terapia intensiva del Sacco prevede 10 posti letto progettati per la cura di pazienti con patologie infettive ad elevata diffusibilità e pericolosità e/o immunodepressi. Sei stanze di degenza isolate da zone filtro garantiranno il bio-contenimento grazie a un sistema di ricambi d’aria per mantenere l’ambiente costantemente a pressione negativa o positiva a seconda delle necessità sanitarie, proteggendo così sia i pazienti sia gli operatori sanitari.
«La pressione negativa funziona come quando si aspira una bibita con la cannuccia; l’aria che entra viene aspirata, in maniera tale che i droplet vengono istantaneamente rimossi. Questo consente una protezione efficace nei confronti degli operatori», spiega Catena. Grazie alle stanze di pressione negativa presenti per i 31 letti già esistenti della terapia intensiva, anche durante la fase più critica dell’epidemia al Sacco non c’è stato nessun contagio tra il personale.
Gli altri quattro posti letto saranno invece dotati di flussi laminari e disposti in un open space flessibile. All’interno dell’area intensiva sarà realizzata una emergency room schermata per consentire l’uso dell’intensificatore di brillanza, dove sarà possibile effettuare manovre invasive, piccoli interventi e procedure diagnostiche senza la necessità di trasferire un paziente infetto fuori dalla rianimazione, evitando così di contaminare altre aree dell’ospedale.
Il Sacco è un esempio di eccellenza, ma non tutti gli ospedali sono così preparati. Le strutture monoblocco degli ospedali più nuovi, per esempio, consentono difficilmente una differenziazione dei percorsi. Il ministero della Salute ha indicato alle regioni che bisognerà costruire ospedali Covid separati, in caso non ci sia possibilità di operare differenziazioni all’interno della stessa struttura. Anche per questo le visite dei parenti saranno limitate o nulle, almeno per i prossimi tempi. Un altro problema è la cosiddetta “zona grigia” di chi arriva in ospedale senza aver fatto un tampone.
«L’organizzazione è fondamentale, soprattutto quando si tratta di patologie tempo-dipendenti che arrivano in emergenza, come nel caso degli infarti. Rischiamo di dover portare in sala operatoria un paziente senza sapere se è positivo al Covid», spiega Catena. «In questo caso comunque si opera immediatamente e durante le procedure si cerca di ottenere la diagnosi, per esempio attraverso il broncolavaggio alveolare, nel caso di un intervento al cuore. Quando si ha la risposta il paziente prende il percorso stabilito: se è positivo, viene trasferito nella terapia intensiva Covid, se è negativo, viene indirizzato verso un’altra terapia intensiva».
GLI ALTRI MALATI
Ma la ripartenza degli ospedali non si limita ai percorsi e alle procedure. In questi mesi di emergenza, infatti, i malati più fragili, oncologici e cardiopatici, per esempio, hanno visto le proprie prestazioni rimandate. È più che fondato il sospetto che ci siano state delle morti collaterali, non direttamente per Covid, ma di malati fragili che non sono andati in ospedale per paura di contagiarsi, e sono morti in casa.
Secondo uno studio della University College London, la percentuale dei decessi in Inghilterra nei prossimi 12 mesi potrebbe aumentare del 20 per cento, arrivando a diciottomila morti causate dal rinvio delle cure da una parte e dal timore dei pazienti di andare in ospedale dall’altra.
Sul rinvio delle cure, secondo i dati di un sondaggio IQVIA, i medici dichiarano impatti in termini di diagnosi e biopsie dimezzate del 52 per cento, ritardi negli interventi chirurgici per il 64 per cento e visite pazienti/settimana diminuite del 57 per cento. Il centro di studi Nomisma ha calcolato che entro dicembre sono quasi quattro milioni gli screening oncologici che dovranno essere effettuati per mettersi “in pari” con gli anni precedenti, a causa del lockdown.
«Chi aveva bisogno di un intervento non urgente in questi due mesi non si è presentato in ospedale, anche perché non c’erano i posti in terapia intensiva. Non è una situazione di emergenza, ma è da affrontare con una certa urgenza», prosegue il primario del Sacco. «Parliamo soprattutto degli interventi per tumori e per tutte le patologie cardiovascolari che necessitano di un’operazione. Si pone una grande sfida organizzativa per riprendere tutte queste attività, anche perché questi malati devono stare in stanze singole, e già questo pone una disponibilità inferiore di posti.
Secondo i dati dell’ISS, il 16 per cento dei decessi registrati durante la pandemia ha riguardato persone con diagnosi di cancro ed eventuali altre comorbidità. La Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (FAVO) ha diffuso un Documento programmatico sull’oncologia per favorire il ritorno immediato alla normalità delle cure, proponendo specifiche misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale.
L’IMPATTO SUI SANITARI
Il periodo più difficile della malattia è finito anche per i medici, che in questi mesi hanno lavorato senza sosta. Hanno pagato un prezzo: «Il virus ha messo in discussione le certezze del corpus teorico e tecnico della medicina e ha cambiato le strutture organizzative all’interno degli ospedali, ponendo spesso gli operatori in nuovi ruoli a cui non è detto si sentissero all’altezza, in mezzo al nervosismo dei colleghi e la paura dei pazienti. Tutto questo è stato un elemento di grande complessità dal punto di vista psicologico», dice a Linkiesta Dario Terenzi, psicologo di Medici Senza Frontiere (MSF) e responsabile dei progetti di sanità mentale nel lodigiano per la ong.
Senza contare la paura di essere contagiati e di contagiare a propria volta altri, combinata con la separazione dai propri affetti in via precauzionale.
Sono stati chiamati eroi, eppure hanno dovuto patire lo stigma di “untori” da parte di conoscenti e vicini di casa. «È come se l’universo degli operatori si fosse complessificato nel giro di poche settimane», spiega Terenzi. Hanno mobilitato le proprie risorse interne al massimo per rispondere agli sforzi che venivano loro richiesti, ma alla lunga «questi processi rischiano di erodere il loro benessere psicofisico, condizionando anche il lavoro».
Perciò Medici senza frontiere ha avviato percorsi specifici di affiancamento psicologico al personale sociosanitario, per contribuire, attraverso lo scambio e la costruzione di una rete di relazione, a metabolizzare e “digerire” gli effetti di un’esperienza profondamente drammatica. Di aiuto sono anche le tecniche di respirazione, gli auto-massaggi e la ricerca di distazioni spostando l’attenzione sul toccare o osservare un oggetto o un suono e descriverli.
E sul sito della ong c’è anche uno spazio virtuale dove tutti, ma soprattutto gli operatori dei servizi, possono trovare consigli utili per gestire le emozioni e i cambiamenti dettati dalla pandemia, anche durante la fase due. «Passato il picco dell’emergenza, potrebbero diffondersi frammentazione sociale e comportamenti autodifensivi, individualisti e meno solidali», avvertono dalla Ong.
Per i medici si pone anche il problema dei tamponi, che continuano a scarseggiare e dipendono dalle realtà sanitarie locali: «A Padova hanno garantito due tamponi a settimana, ma le singole regioni si sono comportate in maniera differenziata», spiega il segretario Anaao.
«La normativa prevede ancora che il medico riceva un tampone solo se presenta sintomi respiratori. E per avere la copertura assicurativa completa bisogna avere tampone positivo a Sars-Cov2. Se non è dimostrato l’Inail non riconosce la copertura globale», dice Palermo. «Il contagio, malgrado sintomi evidenti, è stato trattato come malattia normale, da passare a casa, su cui sono state anche fatte delle trattenute sullo stipendio».
Dal punto di vista penale, poi, l’assicurazione è prevista per le colpe gravi, ma «in alcuni casi non agisce: se si ha compiuto attività in un settore diverso di specializzazione. E noi qui abbiamo avuto pediatri che facevano i geriatri, chirurghi che facevano gli internisti. Una situazione eccezionale, impensabile, con conseguenze organizzative pesantissime», dice il segretario Anaao.
IL FUTURO
Per affrontare la Fase due dovranno essere potenziati i servizi sul territorio e ambulatoriali, inclusa la telemedicina, anche e soprattutto per i malati fragili, come quelli oncologici. Gli orari per visite ed esami all’interno degli ospedali saranno estesi anche ai pomeriggi e ai weekend. Sarà necessario che i cittadini si rivolgano all’ospedale solo in caso di vera necessità, pur tenendo a mente che «non si deve avere paura del Covid a venire, noi siamo attenti a tenere i percorsi ben separati», spiega Catena.
In futuro, alle visite da remoto dei medici di base si affiancheranno quelle degli specialisti, e in generale molta tecnologia in più coadiuverà gli operatori: in alcuni ospedali si trovano già robot in corsia per il monitoraggio a distanza e la comunicazione con il paziente, e sempre più si diffonderanno totem diagnostici ed ecografi in formato smartphone.
Infine, per un’ottimizzazione dei processi che sia veramente tale non bisognerebbe tralasciare i rischi di corruzione. Durante la pandemia, infatti, la decisione di sospendere i controlli in entrata sulle aziende che partecipano alle gare d’appalto per la produzione di dispositivi sanitari (le assegnazioni dei contratti in questi mesi sono state fatte prima della verifica sulle aziende) ha, secondo quanto scrivono The Good Lobby Italia e Transparency International «esposto il settore sanitario a rischi corruttivi ancora maggiori rispetto al passato», peraltro ottenendo «un allungamento dei tempi» generato dall’assegnazione di commesse a società inesistenti o irregolari.
«È necessario un registro pubblico aperto dei titolari effettivi di impresa, volto ad evitare relazioni economiche con aziende di cui non sia possibile conoscere il reale titolare, proprio perché lo schermo è reso possibile da società anonime dietro le quali spesso opera la criminalità organizzata», continuano le associazioni. «Solo investendo nel rapporto di fiducia fra cittadini e istituzioni è possibile eliminare le opacità e la mancanza di chiarezza che in alcuni momenti ha dominato durante la gestione dell’emergenza».