PropagandaDove sono finite le statue monumentali dei dittatori caduti?

Ai totalitarismi del ’900 servivano per incutere timore e trasmettere potenza. Ma le grandi effigi di personaggi come Stalin o Mussolini, disseminate in tutto il territorio, erano le prime a crollare quando il regime finiva

Quando finisce una dittatura, ci sono sempre statue che cadono. Non è un caso: lo si è visto con il monumento di Saddam Hussein, sradicato dal piedistallo.

Lo si nota ancora oggi, perfino in Europa, con i ritrovamenti inaspettati di effigi di Adolf Hitler in Francia (evidenti lasciti dell’epoca dell’occupazione). I totalitarismi del Novecento amavano le rappresentazioni spettacolari. E il potere assoluto si manifestava anche attraverso l’architettura.

Se lo stile fascista in Italia, che ha dato forma a palazzi, piazze e interi quartieri, è ancora visibile (e ci sono state contestazioni, anche azzeccate, sul punto) in Germania la denazificazione è stata invece molto più accurata.

Mentre la Russia ha mostrato, nei confronti delle statue del comunismo, un atteggiamento più selettivo.

Si è salvato Lenin (non esiste paesino, anche il più remoto, che non abbia una sua immagine, in bronzo o dipinta: alcine città, come Ulan Ude nel Sud della Siberia, addirittura, hanno busti immensi) ed è affondato Stalin.

Il crollo dell’Unione Sovietica ha dato il colpo di grazia ai suoi monumenti e alla sua memoria, già colpiti dall’ondata di destalinizzazione seguita alla sua morte.

Al momento le sue (poche) effigi sono circoscritte al Parco dei Monumenti Caduti (non a caso) a Mosca, rimane un busto sulla sua tomba nella necropoli del muro del Cremlino e un altro al Museo della Grande Guerra Patriottica.

Quarta eccezione, è il monumento in cui compare insieme a Roosevelt e Churchill al VDNCh, l’Esposizione delle Conquiste dell’Economia Nazionale.

Tutte gli altri sono stati buttati giù, sradicati, eliminati. La statua più grande era a Praga, tolta nel 1962. A Budapest ce ne era solo una, sparita nel 1956 e mai più sostituita. Quella a Tirana, in Albania, è stata abbattuta nel 1990. Anche quella posizionata a Ulan Bator, in Mongolia, è stata cambiata nel 1991. Curiosità, nel 2010 ne era stata piazzata una nuova negli Stati Uniti, nel National D-Day Memorial a Bedford, in Virginia. Subito levata, in mezzo alle contestazioni.

Dove sono finite? Chi lo sa. Alcune rifuse, altre abbandonate. Una si può trovare, come mostra questo thread su Twitter, sul fondo del mare al largo della Crimea. In buona compagnia con Marx e, chissà perché, anche Lenin.

Solo in Georgia, nella città di Gori, da dove proveniva, rimane in vita una sorta di culto nei suoi confronti. I cittadini conservano del dittatore sovietico un’idea bizzarra: non un oppressore, bensì un ribelle, che dal popolo è riuscito, con la forza del suo coraggio e della volontà, a scalare un sistema sociale guidato da russi. Un eroe, insomma, cui venivano tributati omaggi e manifestazioni.

Anche per questo la rimozione, avvenuta nel 2014 di notte e con la scorta della polizia, della monumentale statua al centro della piazza (la Georgia vieta per legge l’esposizione di monumenti di epoca sovietica), ha causato una forte protesta nella popolazione, che ha subito firmato una petizione per ricollocarla dove era (senza effetto, per fortuna).

Le immagini sono simboli, è chiaro a tutti. In particolare ai coreani del Nord, che dell’esportazione di statue di dittatori hanno fatto, da decenni, una specializzazione: ci sono tutti, dal cambogiano Pol Pot a Stalin, appunto, ma anche personaggi più “moderni”, come Robert Mugabe. In tutto, si trovano esempi della loro arte in almeno 18 Paesi africani.

Il traffico è stato interrotto nel 2016 da un divieto dell’Onu. Una proibizione sensata che, da qualche settimana, sia Cina che Russia (guarda caso) stanno chiedendo di rimuovere. Segno che la storia si ripete, prima in tragedia, poi in farsa. E dopo ancora, in una statua di bronzo.