A che punto siamoIl vaccino non si sa quando arriverà, ma meglio preoccuparci di cosa accadrà dopo

In questo momento sono in corso 124 studi per fermare il coronavirus, ma poi bisognerà fare un serio ragionamento sul numero delle dosi da produrre, il prezzo d’acquisto, e soprattutto come dovrà essere distribuito

NICOLAS ASFOURI / AFP

Cinque milioni e mezzo di casi confermati di contagio. Più di 350mila morti confermate da fonti ufficiali. Una crisi globale alle porte che si prospetta ancora più violenta della Grande Recessione del 2008. La tensione crescente tra le due grandi potenze globali, Stati Uniti e Cina, che secondo il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, «sta spingendo i due paesi sul ciglio di una nuova guerra fredda». E un vaccino da produrre in miliardi di dosi e distribuire ad altrettante persone in tutto il globo il più in fretta possibile. Cosa potrebbe mai andare storto?

Lo scenario è da brividi e apre le porte a una lunga serie di incertezze, ma il vaccino è ancora lontano, molto probabilmente secondo gli esperti non arriverà prima dell’eventuale seconda ondata autunnale del virus. C’è tempo dunque per prepararsi.

Per l’immissione in commercio di un vaccino sono necessarie quattro fasi: nella prima va scoperto, nella seconda va testata la sua sicurezza e la sua efficacia contro il virus specifico, nella terza va prodotto e nella quarta, e ultima, distribuito. In tempi normali per percorrere tutti i passaggi servono circa 10 anni e solo circa il 10 per cento dei tentativi che raggiungono la prima fase riescono ad arrivare all’ultima: con il coronavirus speriamo di riuscirci entro 12 mesi.

Per ora i gruppi di ricerca in tutto il mondo sono tra la prima e la seconda fase. L’Organizzazione mondiale della Sanità conta 124 tentativi di sviluppo in corso di un vaccino per il covid-19, di cui dieci nella fase di valutazione clinica – la seconda – e 114 in quella iniziale.

Di alcuni abbiamo imparato a conoscere i nomi e gli autori: abbiamo letto del lavoro della casa farmaceutica americana Moderna e di quello dell’Università di Oxford e dell’italiana Irbm con il supporto della svedese-britannica AstraZeneca. Ma gli sforzi non sono solo occidentali. Dei dieci candidati per ora più promettenti, la metà sono sviluppati da aziende e team cinesi. La corsa al vaccino rischia di soffiare sul braciere delle tensioni globali sino-americane e mettere in crisi la salute globale.

Obiettivo: 10 miliardi di dosi
Una volta scoperto e testato un vaccino, dovrà essere prodotto. E in grandi quantità. Oggi la produzione mondiale di vaccini, di ogni tipo, si attesta attorno ai 6 miliardi di dosi all’anno, per 1,6 miliardi di fiale di vaccini multidose.

Per sconfiggere la pandemia non sappiamo ancora quante dosi potrebbero servire. A livello teorico l’immunità di gregge si raggiunge con più del 60 per cento della popolazione, sarebbero circa 5 miliardi di persone in tutto il mondo, ma molto dipenderà dalla condizione del contagio al momento dell’autorizzazione a produrre su larga scala.

Le stime della società di consulenza Boston Consulting Group indicano una quantità di circa 200-300 milioni di fiale in più, per raggiungere nel 2021 la produzione annua di 10 miliardi di dosi (nell’ipotesi in cui ci fosse bisogno di 2 dosi per immunizzarsi).

Si tratta di un aumento di quasi il 200 per cento, nel caso peggiore. Un risultato raggiungibile per l’industria che è abituata a incrementare la produzione nei periodi di maggiore richiesta, ma non in breve tempo.

L’attesa necessaria non dipenderà però soltanto dal numero di dosi richieste, ma anche dalla complessità della soluzione scelta: non tutti i vaccini sono uguali. Con alcuni, ad esempio nel caso in cui il vaccino selezionato fosse una versione indebolita o inattiva del coronavirus, l’industria farmaceutica ha una lunga esperienza alle spalle e sono relativamente più semplici da ottenere, altri invece sarebbero più complessi.

Inoltre anche altri elementi potrebbero rappresentare colli di bottiglia: alcune piattaforme su cui si sta lavorando richiedono adiuvanti, molecole aggiunte per potenziare la riposta immunitaria. Proprio come è successo per i reagenti necessari per i tamponi.

Per tutti questi motivi la produzione di miliardi di nuove dosi rappresenta una sfida enorme, che nessuna casa farmaceutica potrà sobbarcarsi da sola. L’azienda americana Johnson & Johnson, se avrà successo nei test del suo tentativo, prevede di produrne circa 1 miliardo entro il 2021, mentre la tedesca Pfizer prevede di produrne centinaia di milioni. Numeri che potrebbero essere insufficienti per sconfiggere il virus. Per questo la speranza di molti è che siano almeno due, o anche più, i vaccini che verranno messi sul mercato.

Inoltre anche la domanda dei vaccini influenzali è destinata ad aumentare: nella prossima stagione di infezione sarà fondamentale poter distinguere tra una normale influenza e la nuova eventuale curva del Sars-CoV-2. Per questo c’è chi propone di anticipare fin da subito la produzione dei vaccini anti-influenzali per la prossima stagione, rendere le linee di produzione più efficienti e soprattutto interscambiabili tra i diversi vaccini in via di sviluppo.

Sarà fondamentale trovare il giusto grado di collaborazione nell’industria farmaceutica, come mai accaduto prima. Sebbene i vaccini verranno probabilmente brevettati, per le aziende rimarranno comunque possibili accordi per concedere la produzione ad aziende terze, in modo da garantire il più possibile la disponibilità.

La scarsità di dosi vaccinali e i limiti di approvvigionamento sono uno scenario probabile, almeno per un primo periodo, secondo gli addetti ai lavori, e i produttori già stanno mettendo le mani avanti.

Quale prezzo per il vaccino?
Quando un prodotto è scarso il prezzo sale, ma fortunatamente il mercato dei vaccini non è come tutti gli altri. Il ruolo degli stati è fondamentale per l’acquisto e la negoziazione di un prezzo e le regolamentazioni sono più stringenti.

Risale al 2001 la decisione dell’Organizzazione mondiale del commercio che rende possibile per i paesi coinvolti in un’emergenza sanitaria scavalcare i brevetti delle case farmaceutiche, nel caso queste non offrano i farmaci necessari a un prezzo ragionevole, come extrema ratio.

In Italia il compito di negoziare il prezzo di un vaccino è assegnato all’Agenzia Italiana del Farmaco. «Non credo che, qualora il vaccino venga scoperto – dice a Linkiesta Claudio Jommi, esperto di politiche del farmaco e professore presso la Sda Bocconi – le imprese lo renderanno difficilmente accessibile richiedendo prezzi troppo elevati. Per due ragioni: la prima è che i prezzi in diversi paesi sono regolamentati ed esiste comunque un certo potere contrattuale di chi acquista. Un potere ovviamente limitato dalla rilevanza del bisogno e dalla conseguente necessità di rendere disponibile i vaccini. Ma l’offerta futura sembra essere promettente, rendendo meno probabili situazioni di effettivo monopolio: pur tenendo conto di un possibile elevato tasso di fallimento, ci sono oggi numerosi vaccini in fase di sviluppo. La seconda ragione è che difficilmente le imprese vorranno minare la loro reputazione su un tema così sensibile per una questione di prezzo. Sono poi fiducioso che verranno attivate tutte le iniziative per rendere di fatto il vaccino disponibile a condizioni economiche accettabili. Ricordo che esistono sistemi regolatori finalizzati ad accelerare sia il processo di sviluppo sia quello di approvazione di farmaci e vaccini, comprimendo i costi sostenuti dalle aziende nella fase di pre-produzione. E sono disponibili anche sistemi Pull & Push (sui quali stanno già lavorando organizzazioni internazionali) che potranno favorire ulteriormente lo sviluppo, ma soprattutto accelerare la produzione su larga scala e facilitare l’accesso nei paesi a basso reddito».

Un’opzione è quella dell’advanced commitment, ma non è l’unica né necessariamente la più efficace per il covid: si tratta di accordi tra produttore e stati o istituzioni internazionali (o fondazioni private come quella di Bill e Melinda Gates) per sovvenzionare l’acquisto a un prezzo calmierato di un vaccino in paesi a reddito medio-basso, che altrimenti non potrebbero permetterselo. Per fortuna, per adesso, tra i paesi più colpiti non compaiono stati in aree povere del mondo, a differenza di quanto avvenuto con il virus dell’Ebola. Anche se il nuovo allarme dell’Oms per il Sud America rischia di invertire velocemente lo scenario.

Questo vaccino a chi lo do?
Per la distribuzione gli esperti temono un nuovo 2009. Allora il mondo offrì un pessimo esempio di cooperazione internazionale. Come ha ricordato il Washington Post, per combattere l’influenza suina i paesi chiusero le dogane al commercio delle dosi vaccinali e si azzuffarono in un circolo vizioso di nazionalismo sanitario.

L’Australia stoppò l’esportazione di un produttore nazionale verso gli Stati Uniti, un paese storicamente alleato, e gli stessi americani ritardarono la distribuzione ai paesi più poveri per dare priorità al loro piano di vaccinazione, che peraltro si rivelò poi inutile.

Se questo terribile scenario vi sembra familiare, qualcosa di molto simile è accaduto nel mercato dei dispositivi di protezione e macchinari per la terapia intensiva nella prima fase della pandemia. Quando molti paesi si sono trovati completamente scoperti e il mercato era governato da accaparramenti, aste al rialzo e accuse di “pirateria” tra paesi.

Potrebbe ripetersi sul vaccino, in un mondo molto meno multilaterale rispetto a un decennio fa e senza una guida globale: l’Oms non può nemmeno aspirarvi. E in cui i contratti già firmati dell’amministrazione di Donald Trump con AstraZeneca, Moderna e Johnson & Johnson per garantirsi centinaia di milioni di dosi non fanno presagire nulla di buono. D’altronde quasi tutti i paesi hanno in vigore leggi che permettono di obbligare i produttori domestici a non vendere all’estero prodotti di rilevanza strategica.

Scoprire per primi un vaccino efficace potrebbe essere anche un detonatore di tensioni politiche. I risultati sull’efficacia di un vaccino dovrebbero giungere in contemporanea con le ultime settimane della campagna elettorale americana. Già li sentite gli slogan che potrebbero alzarsi nel caso in cui l’azienda con le migliori probabilità di successo (non) fosse statunitense?

Ma secondo molti esperti concentrarsi su chi arriverà per primo a scoprire e produrre un vaccino sicuro ed efficace potrebbe essere controproducente.

Sembrano di questo avviso anche le istituzioni europee, che hanno adottato un differente approccio: hanno raccolto 7,4 miliardi di euro per la ricerca di diagnosi, trattamenti e vaccini anti-covid e riconosciuto quel ruolo di coordinamento all’Oms che gli Stati Uniti invece hanno rinnegato. Ma anche all’interno dell’Unione dovranno essere prese decisioni coraggiose per distribuire le dosi una volta scoperto il vaccino.

Così auspica il direttore dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), Guido Rasi, che rispondendo alle domande degli europarlamentari ha detto: «Non possiamo garantire che non appena autorizzeremo in Europa l’uso di un vaccino questo sarà disponibile. Ma un elemento chiave per prevenire problemi sarebbe poter contare su un unico modello di distribuzione. Dobbiamo stabilire come proteggere la popolazione europea a ondate, creando un primo anello di difesa per tutti i cittadini europei».

Non ragionare dunque per paesi, ma per categorie di persone più o meno vulnerabili, e con più o meno contatti con gli altri. Una soluzione che, per prevenire conflitti, dovrà essere opportunamente comunicata, e dovrà essere trasparente.

A essere d’accordo con questa ipotesi sono in molti tra gli esperti, tra cui anche Stefano Vella, infettivologo dell’università Cattolica ed ex direttore del centro nazionale per la salute globale dell’Istituto superiore di sanità. «Dobbiamo tornare a pensare all’epidemia come un fenomeno globale – dice a Linkiesta – ora stiamo riflettendo sul virus come fosse una minaccia che attacca i paesi singolarmente, sbagliando».

Il vaccino come bene pubblico globale quindi. «Sono abbastanza fiducioso che si possa attivare un coordinamento internazionale sulla distribuzione delle dosi: prima andrebbero date alle categorie più esposte, gli operatori sanitari, le persone fragili come gli anziani e persone che hanno malattie croniche, come facciamo con l’influenza. Poi piano piano anche a tutti gli altri, a partire da chi lavora a stretto contatto con altre persone».

In alternativa, un metodo che richiederebbe un minor quantitativo di dosi prevede di vaccinare in modo prioritario chi si trova nelle aree più a rischio per spegnere gli eventuali focolai. Sempre che le persone vogliano sottoporsi: in Italia e negli Stati Uniti sono circolati dei sondaggi secondo i quali circa un individuo su cinque non intenderebbe farlo.

A parlare di coordinamento mondiale però, in Italia, ci si scontra con la realtà. Le 19 regioni più le due province autonome hanno sistemi sanitari indipendenti e ogni giorno si riscontrano difficoltà di coordinamento per stabilire approcci comuni minimi al contrasto del contagio.

Cosa succederebbe se alcune regioni decidessero di dare priorità a categorie differenti di individui per la vaccinazione? E se i governatori litigassero per procurarsi per primi il vaccino e privilegiare la propria regione? Mentre Stati Uniti e Cina si sfideranno per accaparrarsi per primi tutte le dosi disponibili, in Italia assisteremo a litigi su Facebook tra De Luca e Fontana? Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.

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