«Virginia Raggi ha fatto più strade degli antichi romani». Chi riscrive la storia è Paolo Ferrara, consigliere comunale e uomo chiave del Movimento 5 Stelle capitolino, lo stesso che pochi giorni prima si era chiesto: «Come sarebbe possibile a Roma non far continuare il lavoro a Virginia Raggi? È un po’ come se Giulio II, il Papa delle arti, avesse impedito a Michelangelo di terminare la Cappella Sistina».
In questi giorni la sindaca sta ottenendo una visibilità insperata grazie al coronavirus, che ha portato sulla scena mediatica tanti amministratori locali.
E non è un caso che dopo mesi di basso profilo, Raggi sia tornata in tv a parlare di emergenza. Per poi annunciare: «In molti mi stanno chiedendo di ricandidarmi».
Tra un anno si torna a votare per le elezioni amministrative in una città afflitta dagli stessi problemi da più di un decennio: dai rifiuti ai mezzi pubblici, dal degrado delle periferie all’abbandono del verde pubblico.
Eppure, a sentire Raggi, «Roma non è mai stata così pulita come durante la fase uno del coronavirus». Cioè mentre i negozi erano chiusi e le persone bloccate in casa.
Fino a pochi mesi fa un suo secondo mandato non era in agenda. E non solo per le regole del Movimento. Come ha scritto Massimo Gramellini con ironia sul Corriere della Sera: «Sussisteva, incredibile a dirsi, qualche lieve perplessità sulle sue doti amministrative». Oppure, per dirla con Matteo Salvini, Carlo Calenda e il romanissimo Messaggero: «Raggi è un’incapace».
Invece con il Covid non solo è tornato d’attualità, ma in mancanza di avversari è diventato incredibilmente l’unica ipotesi in campo.
Centrodestra e centrosinistra non sembrano ancora interessati a presentare un progetto e un nome per la capitale, e quindi il dibattito è tutto interno al Movimento 5 stelle.
L’ex capogruppo alla Camera Roberta Lombardi ha stoppato l’idea del bis, mentre il capo politico Vito Crimi ha aperto a una modifica delle regole per permettere alla Raggi di ripresentarsi.
La sindaca, intanto, ha cominciato il giro delle alte sfere: è andata alla Farnesina da Luigi Di Maio e poi a cena a casa di Alessandro Di Battista. Ora più che mai, Raggi sembra convinta di tirare dritto, o almeno provarci. Nonostante i sondaggi non lusinghieri e le critiche quotidiane dei romani.
Fuori dal Campidoglio pentastellato, tra gabbiani che spulciano nell’immondizia e parchi con l’erba sempre più alta, c’è una Capitale in declino costante, bella e decadente, che a molti sembra senza speranza e senza visione.
«Bisognerebbe riempire le strade di gru, invece vedo una città ferma e passiva. Dal trasporto pubblico allo smaltimento dei rifiuti, passando per il degrado. Roma non è accogliente per le imprese e offre una qualità della vita pessima a chi deve spostarsi per lavorare».
Filippo Tortoriello è il presidente di Unindustria, l’associazione territoriale di Confindustria, che ha presentato “Roma Futura 2030-2050”, un programma a lungo termine su infrastrutture, urbanistica, servizi e tecnologia. Dal Campidoglio però, nessuna risposta.
«Le grandi città metropolitane del mondo competono tra di loro. Si sono dotate di un piano strategico per i prossimi decenni, per rendersi attrattive, richiamare investimenti e giovani che vogliano trasferirsi. Parliamo di città smart, con trasporti sostenibili, a impatto zero. Roma non è riuscita a fare nulla di tutto questo» racconta Tortoriello a Linkiesta.
Come se la città, che vive del suo passato, non meritasse nulla di nuovo.
Se Sidney si è data come obiettivo la riduzione a 30 minuti del tempo massimo per raggiungere il posto di lavoro, la Capitale d’Italia è seconda solo a Bogotà per ore perse nel traffico, secondo l’istituto di ricerca Inrix.
«Una città slabbrata», l’ha definita Walter Tocci, già vicesindaco e assessore ai Trasporti durante gli anni di Rutelli.
Roma ha una superficie pari a quella dei nove comuni italiani più grandi messi insieme. Più di sei volte la superficie di Milano e dodici volte quella di Parigi, di poco inferiore solo a Londra. «Ma la nostra è una città provinciale, non una metropoli internazionale», ammette il capo degli industriali Tortoriello.
«Tutti vogliono vederla, ma non vogliono viverci. Dovrebbe essere il biglietto da visita dell’Italia, e invece spesso si parla di Milano che è fortemente attrattiva. La Capitale non è ingovernabile, ma servono volontà politica, dialogo e soprattutto una progettualità di lunga durata».
Ma anche strumenti diversi: «Non è possibile che il sindaco di Roma abbia gli stessi poteri di un paese di poche migliaia di abitanti. Per non parlare della burocrazia. Dove ce n’è troppa, aumenta la corruzione». Intanto però, tra meno di un anno, si torna al voto.
Le tre priorità cui dovrebbe dedicarsi il prossimo inquilino del Campidoglio? Il presidente di Unindustria non ha dubbi: «Mobilità, rifiuti e decoro urbano. E un pensiero alle periferie, che dovrebbero avere solo una distanza geometrica dal centro, e non per la qualità della vita».
Invece le borgate di Roma continuano a essere ostaggio di disagio e degrado. Nonostante ospitino la maggioranza della popolazione. Solo nelle periferie fuori dal Grande Raccordo Anulare, sempre in territorio comunale, vivono oltre 700mila romani. Qui si sono spostati giovani e famiglie con figli. Devono fare i conti con scarsità di servizi essenziali come asili, trasporti e biblioteche.
«Roma è la Capitale delle disuguaglianze», racconta a Linkiesta Salvatore Monni, economista e professore all’Università di Roma 3. Insieme a Federico Tomassi e Keti Lelo ha redatto una serie di mappe con numeri impressionanti, raccolte prima in un blog e poi in un libro.
«Parliamo di due città in una, e se nasci in una zona di Roma, sai già che non avrai certe opportunità. E non è solo una questione di reddito».
Se nel lussuoso quartiere dei Parioli il 42 per cento dei residenti è laureato, la percentuale crolla al 5 per cento a Tor Cervara, periferia est della Capitale. E nel quartiere di Santa Maria di Galeria il 30 per cento della popolazione ha al massimo la licenza elementare.
A tutto questo, Monni aggiunge un dettaglio inquietante: «Utilizzando l’indice di sviluppo umano dell’Onu, un indicatore che tiene conto del Pil, dell’istruzione e dell’aspettativa di vita, il sesto municipio di Roma è paragonabile a un Paese povero africano».
Le differenze sociali ed economiche hanno ridisegnato anche la geografia politica cittadina. Le zone periferiche che fino agli anni Settanta erano considerate “rosse”, sono diventate basi elettorali di Cinque Stelle e Lega, mentre il Pd resta nella cosiddetta “zona Ztl”, quella del centro e degli eleganti quartieri residenziali.
«Il tema delle disuguaglianze in città – spiega Monni – è urgente da anni, ma non lo è per la politica. La prossima amministrazione dovrebbe ripartire da qui».
In attesa di capire quale sarà l’agenda per la città del futuro, le priorità sono state stravolte dalla pandemia. A pagare, da subito, è stato il settore turistico. Roma è una città da 29 milioni di presenze annue, con una quota altissima di turisti stranieri. Ora però l’Agenzia nazionale del turismo (Enit) stima un calo del 44,3 per cento, un dramma per una delle industrie più forti della città.
Nel centro storico, tra hotel vuoti e ristoranti ancora chiusi, il conto dei danni potrebbe essere pesantissimo.
Il presidente della Camera di commercio Lorenzo Tagliavanti lo ha detto nei giorni scorsi: «Nella Capitale ci sono 500 mila imprese e il 10 per cento potrebbe non riaprire: parliamo di 50 mila aziende, e temiamo che almeno 80 mila persone possano perdere il lavoro. Tra questi ci sono anche molti titolari d’impresa».
Come ne uscirà la città? Prima di ogni programma resta un altro grande interrogativo. Quella del candidato sindaco è una patata bollente che si passano in molti, tra sorrisi di circostanza e «no grazie» imbarazzati. A destra, come a sinistra.
Un tempo la poltrona del Campidoglio era un trampolino perfetto per puntare al governo del Paese, ma negli ultimi anni chi è entrato a Palazzo Senatorio ha finito per bruciare le proprie ambizioni. Da Gianni Alemanno a Ignazio Marino, amministrare la Capitale sembra essere diventata una maledizione.
Ecco perché i nomi che girano in questi giorni sembrano più una lista dei desideri. Enrico Letta, ad esempio, è il più citato. Da mesi.
L’ex premier, pisano di nascita, una cattedra universitaria a Parigi e una casa a Testaccio, vorrebbe tornare in campo. Non è un mistero. Ma difficilmente accetterebbe un incarico al Campidoglio. «E poi – sottolinea un profondo conoscitore della macchina amministrativa della capitale – rischierebbe di essere un altro marziano, isolato, come Ignazio Marino».
Il segretario dem Zingaretti avrebbe detto ai suoi: «Il bis della Raggi? Più che una notizia, è una minaccia per i romani». Al Nazareno vorrebbero un candidato forte da spendere in città, ma nemmeno troppo sgradito ai Cinque Stelle, per poter trovare un convergenza in caso di ballottaggio contro la destra.
Carlo Calenda profetizza: «A Roma si formerà un’allegra coalizione Pd-5S-Leu-Iv, nella peggiore delle ipotesi con un bis della Raggi». Un altro profilo che piace molto a sinistra è quello del presidente del Parlamento Europeo David Sassoli.
E poi c’è lo stesso Carlo Calenda, che potrebbe attrarre consensi trasversali, ma l’ex ministro dello Sviluppo Economico non ci pensa minimamente alla corsa da sindaco, affaccendato com’è a ritagliarsi un ruolo nazionale e a contendersi con Renzi lo spazio al centro.
Restano gli altri nomi, come quello della presidente del 1° Municipio Sabrina Alfonsi e quello del deputato Roberto Morassut, già assessore con Veltroni.
Intanto il minisindaco del 3° Municipio Giovanni Caudo, al Campidoglio con Marino, fa sapere che potrebbe candidarsi alle primarie di centrosinistra. Ammesso che si facciano.
Anche a destra la situazione sembra tutt’altro che definita. Solo pochi mesi fa Matteo Salvini aveva ricominciato la sua campagna elettorale proprio dai mercati rionali e dai quartieri di Roma, contro la Raggi.
Aveva anche «qualche idea» sul candidato, come l’avvocatessa Giulia Bongiorno. O magari un civico. Poi però, complice la pandemia, si è fermato tutto.
Adesso negli ambienti del Carroccio gira il nome dell’ex ministro Franco Frattini. Un profilo che compatterebbe la destra è quello di Giorgia Meloni. Nella Capitale i suoi Fratelli d’Italia sono ben radicati e vogliono dettare le regole al prossimo giro.
L’ex ministro della Gioventù, però, non sembra avere intenzione di candidarsi. Potrebbe farlo il suo fedelissimo Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e «Pigmalione» di Giorgia, secondo la definizione di Alessandro Giuli.
Manca un anno al voto. Non è molto, soprattutto se di mezzo ci sono votazioni online, tavoli tra alleati e litigi di partito.
E mentre il blog anti-degrado “Roma fa schifo” continua a chiedere un commissario governativo per la Città Eterna, l’ex primo cittadino Francesco Rutelli ha lanciato la Scuola di Servizio Civico, per formare la classe dirigente della Capitale futura. «Un sindaco deve avere con sé almeno cento persone dotate di competenze specifiche». Chissà se i candidati al Campidoglio prenderanno appunti.