«Perché deve essere un ministro a decidere il piano industriale di una compagnia aerea?». Se lo chiedono in tanti, dopo gli annunci sul futuro della nuova Alitalia di Stato versione giallorossa. Ma davanti alla promessa della quarta “resurrezione”, questa volta per giunta nel bel mezzo della più grandi crisi del settore aereo dall’invenzione dell’aviazione commerciale, in pochi riescono a crederci.
Il decollo della newco con i 3 miliardi del decreto rilancio rallenta, tra le tensioni politiche tra Partito democratico e Movimento Cinque Stelle per le nomine dei nuovi manager. La ministra dei Trasporti Paola De Micheli, in audizione alla Camera insieme al collega del Mise Stefano Patuanelli, ha già illustrato però le linee guida su quello che dovrà essere il nuovo vettore. Tre i punti chiave per stilare il piano industriale: una flotta più giovane, rafforzamento dei voli a lungo raggio sull’hub di Roma Fiumicino, ma anche su Milano Malpensa, e recupero del cargo. E la «discontinuità», chiesta da Bruxelles per autorizzare la nazionalizzazione, avverrà sulla architettura societaria, ma senza «nessuno smembramento».
Su questi elementi il governo scommette per il rilancio della compagnia oggi in amministrazione straordinaria, che lo scorso anno perdeva (senza il Covid) mezzo miliardo di euro ma che – parole di De Micheli – sarà in grado di «contribuire alla ripresa economica del Paese e di competere sul mercato internazionale».
«È come essere ritornati al 1947», spiega Ugo Arrigo, economista dell’Università Bicocca di Milano, esperto di trasporto aereo. «L’Alitalia del 1947 è stata proposta da un esponente liberale come Nicolò Carandini che non si fece problemi a mettere in piedi una compagnia nazionale di bandiera sotto l’insegna dell’Iri».
Settantatré anni dopo, torna lo Stato imprenditore. Ma «a patto che si faccia una nuova Alitalia da zero, perché la vecchia non regge», precisa Arrigo. «E che quei 3 miliardi vengano usati per rilanciare e comprare una nuova flotta e non per ripianare le perdite». Tutto questo «deve esser fatto subito. Il coronavirus ha azzerato le quote di mercato e tutti i vantaggi che si erano creati. È un grosso colpo di fortuna se si vuole rilanciare Alitalia, però va colto rapidamente».
E invece si sta perdendo molto tempo. La costituzione della newco, attesa a giugno, è slittata a fine luglio, frenata dal mancato accordo di maggioranza sulle nomine. Ogni partito ha il suo candidato e spetterà al premier fare la sintesi. Nel frattempo il ministero dell’Economia ha scelto gli advisor (Oliver Wyman, Deloitte e Grimaldi studio legale) per costruire le linee del piano industriale, che poi dovrà essere valutato da Bruxelles.
Ma anche sul piano, nonostante la professata unità di intenti dei ministri, non ci sarebbe ancora una visione comune. I Cinque Stelle, come in passato, puntano sulla partnership con Air Dolomiti, controllata di Lufthansa. Nel Partito democratico si vorrebbe evitare che un partner ingombrante releghi Alitalia a diventare un vettore regionale utile ad alimentare solo gli hub del gigante tedesco.
Si continua a trattare. Ma il timing preoccupa anche i sindacati. «Stiamo perdendo tempo prezioso», dice Fabrizio Cuscito, coordinatore nazionale del trasporto aereo della Filt Cgil. «Alitalia sta ricominciando a perdere possibili fette di mercato a favore di altri operatori che sono ripartiti senza problemi, perché non hanno una gestione commissariale e sono società più solide nonostante la crisi».
Ma finché al timone ci sarà il commissario Giuseppe Leogrande (affiancato da gennaio pure da un direttore generale, Giancarlo Zeni) vince la linea del tenere più soldi in cassa, «evitando la riapertura di quelle tratte che sarebbero sì in perdita ma servirebbero a presidiare il mercato», dice Cuscito.
Patuanelli, che ha scelto Leogrande, ha fatto sapere che in cassa ci sono ancora 232 milioni «nonostante l’emergenza Covid». Ma non si sa quanti di questi soldi arrivino dai biglietti venduti su voli cancellati causa Covid. E in più sono in arrivo anche i 350 milioni stanziati con il decreto Cura Italia.
Nell’attesa, è tornata alla ribalta l’offerta da parte degli americani di USAerospace Partners, un agglomerato di società specializzate nell’aviazione che ha messo sul piatto 1,5 miliardi di investimento, una flotta più grande, un hub per i voli civili e due per i cargo, prezzi «giusti, ma non low cost».
Gli americani hanno presentato la manifestazione di interesse al bando per Alitalia scaduto lo scorso 18 marzo e la presidente del gruppo è stata ascoltata anche in commissione Trasporti alla Camera. Ma per il momento il governo ha preferito ignorare l’offerta.
Eppure, davanti a una crisi senza precedenti, il rilancio di una compagnia malconcia già prima del Covid sembra sempre più difficile. Anche perché, se – come confermato da De Micheli e Patuanelli – la newco potrà contare su 105 aerei (dai 113 attuali), resterà comunque un piccolo vettore tra i grandi, se paragonato a Lufthansa, che può disporre di 760 aerei.
La ministra ha precisato che non si vuole fare una «compagnia mignon». Ma, spiega Paolo Beria, professore di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano, «la grande compagnia generalista oggi ha bisogno di grandi numeri. Non bisogna per forza diventare grandi quanto Lufthansa, ma certamente non più piccoli di una low cost. Se una compagnia avesse un mercato proprio in cui non c’è troppa concorrenza, allora si potrebbero immaginare dimensioni più piccole, come accade per le compagnie del Nord Europa o per la portoghese Tap, concentrate su specifiche aree geografiche. Ma l’offerta della compagnia di bandiera con un grande hub e voli a lungo raggio da e per l’Italia non può stare in piedi con 100 aerei».
La dimensione minima sufficiente, secondo Ugo Arrigo, sarebbe quella della vecchia Alitalia dismessa nel 2008 con dentro Airone. «I due avevano in tutto 240-250 aerei», spiega il professore, che da anni studia i conti di Alitalia. «Una compagnia più piccola vorrebbe dire avere un vaso di coccio in mezzo ai tanti vasi di ferro già esistenti».
Un raddoppio della flotta che si augurano anche i sindacati, ma che non si può fare dall’oggi al domani – per quanto oggi tutte le compagnie abbiano aerei che non sanno dove mettere a fronte di pochi passeggeri, e quindi sul mercato si potrebbero trovare velivoli a buon prezzo (la stessa Lufthansa sacrificherà 100 aerei a causa della crisi). «Ma bisogna farlo in fretta prima che gli altri occupino gli spazi da cui il coronavirus li ha tolti», ribadisce Arrigo.
Il fronte dei critici sulla utilità dell’ennesimo salvataggio di Alitalia, in realtà, è molto affollato. «Se proprio bisognava fare attenzione al settore aereo per la ripresa del Paese, sarebbe stato utile aiutare tutti i vettori del trasporto aereo per cercare di far riprendere il più in fretta possibile la domanda. Il fatto di voler rilanciare a tutti i costi Alitalia, non rilancia il traporto aereo italiano, tantomeno Alitalia», dice Andrea Giuricin, economista dei Trasporti all’Università Bicocca di Milano.
Anzi, gli aiuti ad Alitalia contenuti nel decreto rilancio hanno fatto innervosire la lobby delle low cost, che per la prima volta si sono alleate in una associazione unica, la Aicalf. L’amministratore delegato di Ryanair Michael O’Leary ha accusato l’Italia di concorrenza sleale, attaccando nello specifico la norma del decreto rilancio che chiede a tutte le compagnie che operano nella penisola l’adozione di un contratto unico nazionale per ottenere l’accesso ai fondi di ristoro per i danni da Covid.
E gli sforzi concentrati su Alitalia preoccupano pure i gestori aeroportuali, che tra aprile e maggio hanno registrato un crollo di 45 milioni di passeggeri, con oltre 10mila dipendenti in cassa integrazione.
«È essenziale difendere il mercato aereo, ma non la sola Alitalia», dice Giuricin. La sua ricetta, l’esperto di trasporti l’aveva sottoposta al governo. «Avevo proposto di eliminare le tasse volo, riducendo così un costo fisso per le compagnie, e di abbassare l’Iva sui voli domestici, che oggi è al 10%. Ho mandato le proposte a diversi ministri. Invece la mossa è stata prendere 3 miliardi e 350 milioni e darli ad Alitalia».
Ora attendono tutti il piano industriale. Lo chiedono le parti sociali. E lo chiedono anche i parlamentari che dovranno votare il decreto rilancio con 3 miliardi per il vettore. E con il piano si capirà su quali rotte si vorrà posizionare Alitalia.
«La nuova compagnia ha senso se punta sulle rotte mondiali», dice Ugo Arrigo. «Potremmo fare a meno del vettore nazionale sul breve raggio nazionale laddove c’è l’alta velocità, sul medio raggio europeo perché si va ovunque a basso prezzo con le low cost. Ma sulle destinazioni intercontinentali non possiamo farne a meno».
Oggi, sulle rotte intercontinentali, due passeggeri su tre fanno scalo su altri hub europei. «Siamo obbligati ad andare negli altri continenti passando per altri hub. Questa cosa non fa bene al turismo. Se un turista per arrivare in Italia deve passare da Parigi, forse a Parigi ci si ferma pure, riducendo il numero dei giorni che avrebbe trascorso in Italia se avesse volato direttamente nel nostro Paese».
Non è d’accordo Giuricin. «È vero che alcune connessioni senza sistema hub and spoke non verrebbero collegate direttamente, ma è anche vero che sempre più grandi attori internazionali sono nel nostro mercato», dice. «Alitalia, ad esempio, non serve più nessuna destinazione in Cina ormai da due anni, prima della crisi Covid, ma in realtà siamo connessi comunque con dieci destinazioni in Cina con oltre 30 voli settimanali grazie agli altri operatori stranieri».
La dismissione del lungo raggio è partita dal 2007 in poi, dopo l’ingresso nell’alleanza con AirFrance-Klm. Forse un «pedaggio» da pagare per entrare nella coalizione. Che però si è rivelata una scelta suicida. Alla vigilia dell’invasione delle low cost, Alitalia ha ridotto la capacità sull’unico segmento che sarebbe rimasto remunerativo. Sul medio raggio europeo, poi sono arrivate Ryanair, Easyjet e altri a prezzi stracciati. E sul breve, i Freccia Rossa e gli Italo.
Risultato: la quota di mercato di Alitalia sui voli intercontinentali si è ridotta all’8%, mentre le low cost ormai occupano il 51,3% del traffico. Sui 161 milioni di passeggeri italiani del 2019, 127 milioni riguardano i voli internazionali. Di questi, solo 9,9 milioni hanno volato con Alitalia da e per l’Italia. Ryanair nello stesso anno ha portato 28,6 milioni di persone, EasyJet 14,7 milioni.
La ministra De Micheli ha preannunciato di voler tornare a puntare sui voli intercontinentali e sui voli cargo, dismessi dopo la privatizzazione di Alitalia (ad oggi la merce italiana per via aerea viaggia per l’85% con vettori non italiani). Ma nel decreto semplificazioni si prevede anche una mossa sui voli interni, con un contratto con lo Stato per garantire i servizi essenziali con la Sardegna e le isole minori della Sicilia in regime di monopolio. Cosa, questa, che potrebbe non piacere affatto alla Commissione europea.
Alitalia ha bruciato circa 300 milioni di euro all’anno da quando, nel 2017, è entrata in amministrazione straordinaria. I commissari per legge non sono tenuti a presentare un bilancio annuale, ma per il 2019 si parla di almeno 100 milioni di perdite in più del 2018, che vorrebbe dire una perdita vicina a 600 milioni su poco più di 3 miliardi di ricavi. È dall’inizio degli anni 2000 che sui conti non si vedono utili. «L’idea che basti l’arrivo lo Stato per trasformare Alitalia in una compagnia florida grazie alle slide con il nuovo piano industriale l’abbiamo già vista altre volte e non ha funzionato», dice Beria. «La compagnia doveva essere venduta l’anno scorso quando c’erano trattative aperte con grosse compagnie. Alitalia è morta da dieci anni, solo che non lo sa».
Il progetto del governo, invece, almeno per il momento piace ai sindacati, preoccupati per la tenuta dell’attuale livello occupazionale degli 11mila dipendenti. I costi del personale li ha ricordati Patuanelli: a fronte di 1,3 miliardi di prestiti di gestione commissariale, la compagnia ha erogato oltre 1,5 miliardi di stipendi. Ma, tra le ipotesi sul tavolo, c’è l’acquisizione di alcuni «asset interessanti» di Air Italy in liquidazione, a partire dai dipendenti. Un salvataggio nel salvataggio.
«Se si vuole rilanciare un’Alitalia forte», dice Cuscito della Filt, «non solo non ci devono essere licenziamenti, ma dovranno esserci nuove assunzioni. Alitalia potrebbe essere l’occasione per fare veramente una grande operazione industriale: attraverso i contratti di espansione, si garantirebbe l’accompagnamento di coloro che maturano i requisiti pensionistici e nello stesso tempo si assumerebbero giovani con competenze tecnologiche».
Un piano che, forse, potrebbe far digerire meglio l’ennesimo salvataggio della compagnia, costata (contando gli ultimi 3 miliardi) ben 12,6 miliardi di soldi pubblici in 45 anni, secondo i calcoli del Sole 24 Ore. Secondo un sondaggio Swg dello scorso dicembre, il 55% degli italiani è d’accordo con l’idea di investire ancora soldi dei contribuenti in Alitalia.
«Abbiamo un progetto, nascerà una newco, una nuova società che non sarà un carrozzone di Stato», ha assicurato il premier Conte. «Dobbiamo cercare di presidiare questo spazio di mercato perché è importante avere un vettore, non tanto per una questione di bandiera, ma perché nella logica dell’interconnessione dei trasporti è fondamentale».
Ma perché crederci proprio ora, in un panorama di crisi, e dopo svariati tentativi falliti di risollevare la compagnia?
«Il rilancio dell’Italia può esserci benissimo anche senza Alitalia», dice Beria. «Il problema è che ci si troverebbe con migliaia di lavoratori da mantenere in cassa integrazione, uno scenario non sostenibile a livello politico. Tuttavia, questa operazione servirà a fare sopravvivere la compagnia, non a rilanciarla. In una crisi di questo tipo la probabilità che sopravvivano anche soltanto la metà delle compagnie aeree attuali è abbastanza bassa». Forse, ipotizza Beria, «hanno in mente di sfruttare il fatto che le low cost e le altre compagnie che volano in Italia avranno vita difficile nei prossimi anni perché devono farcela con le loro gambe. Ma se il piano è l’attesa dei crac altrui non si andrà molto lontano perché i concorrenti principali di Alitalia, Ryanair, Easyjet e Wizz Air, sono abbastanza solidi».
Pessimista anche Giuricin: «Il governo italiano si sta aggrappando a una visione obsoleta del trasporto aereo che non esiste più», dice. «Perché possa ripartire il mercato aereo nel suo complesso, c’è bisogno di maggiore concorrenza, non di monopoli». Le norme europee attualmente consentono ai governi di iniettare denaro nelle compagnie aeree che stanno subendo perdite a causa della pandemia, come ha fatto la Germania con Lufthansa. Ma la crisi di Alitalia è iniziata molto prima del Covid e più che una scommessa, quello attuale sembra un azzardo.
«Si stanno facendo errori a livello europeo», dice Giuricin. «Intervenire compagnia per compagnia e non su tutto il settore crea delle distorsioni tali che c’è il rischio che alla fine della crisi non rimangono in piedi le compagnie più efficienti, ma quelle che sono state più brave a ricevere aiuti pubblici».
Più ottimista Ugo Arrigo: «Mi sembra difficile che si possa rilanciare il Paese senza avere un vettore aereo, a patto che cada a coprire i segmenti che le low cost non coprono», dice. «L’esigenza di un vettore di bandiera c’è. È inutile negarlo. Anche per Lufthansa il governo tedesco non ha detto “lasciamola fallire” e si è reso disponibile a sostenere la compagnia in questo momento di crisi».
La Iata (International Air Transport Association) ha calcolato che nella crisi Covid sono stati spesi 120 miliardi di dollari dai governi a sostegno delle compagnie, metà in prestiti e metà a fondo perduto. Certo, nessuno degli altri Paesi aveva una compagnia chiamata Alitalia, con tre salvataggi pubblici alle spalle.
E la Commissione europea, che dovrà valutare il piano industriale in arrivo dal governo, su un punto è stata chiara: il Covid non può essere una scusa per risanare compagnie che andavano già male prima della pandemia.