La settimana scorsa nelle redazioni è arrivato un comunicato che diceva che Beautiful, la soap opera ambientata a Los Angeles che ha trovato l’America in Italia, compiva trent’anni di messinonda italiana. Sembravano cento, sembrava ieri.
Non la guardavo, in quel giugno del 1990, perché era la stagione in cui ero dietro la lavagna con le orecchie da asina. Cioè: l’anno scolastico in cui, essendo quello prima stata bocciata, andavo a lezione da privatista nel seminterrato d’una vedova d’un ufficiale della Guardia di Finanza, che per ventimila lire l’ora in nero riportava sulla retta via i somari benestanti di Bologna (e, se la retta via era irraggiungibile, almeno ci faceva concludere gli studi nei termini temporali previsti).
Detta più in breve: non avevo compagne di classe. E quindi quello fu l’anno in cui non seppi niente di canzonette, di tv, di tutto ciò di cui si parlava all’intervallo e durante l’ora di religione.
Qui ci andrebbe un intermezzo morettiano, la scena in cui quell’agosto, in un albergo dei Caraibi, torno in stanza a cambiarmi e la cameriera sta guardando Beautiful mentre rifà la stanza; purtroppo la me diciassettenne era sceneggiata peggio d’un personaggio di Caro diario, e quindi non colse al volo che lì erano tre anni più avanti e conveniva studiare e aggiudicarsi un vantaggio che a settembre sarebbe stato preziosissimo.
A settembre tornai a frequentare una vera scuola, ero di nuovo in pari con le mie coetanee per quel che riguardava la letteratura e la chimica, ma ero indietro rispetto alle cose davvero importanti: all’intervallo si parlava solo della rivalità tra Brooke e Caroline (che moriva tragicamente quasi subito, ma poi tornava come gemella dispersa nei meandri della biologia e della sceneggiatura).
All’epoca non c’erano sterminati archivi da consultare sul telefono, al massimo potevi recuperare i riassunti della settimana prima nelle pagine dei programmi televisivi dei settimanali. Tuttavia, mettersi in pari fu assai meno difficile che recuperare Eraclito nel seminterrato.
Allora non lo sapevo, ma questa narrazione che anche se ne hai perse cento puntate ci metti un attimo a sapere tutto, che conosci anche se non conosci, che hai visto anche se non hai visto, quel meccanismo lì ha un nome: si chiama cultura popolare.
Anni fa ho conosciuto una tizia che non aveva consumi culturali (tranne i libri di David Foster Wallace: quelli che non hanno visto o letto niente hanno però sempre letto Wallace; probabilmente La scopa del sistema, cinquecentosessanta svelte pagine, non ha lasciato loro tempo per consumare altro).
La tizia non aveva mai visto né Via col vento né Il padrino. La tizia era tuttavia in grado di avere una conversazione sul vestito fatto con le tende o sulla testa di cavallo. Li sapeva anche se non li sapeva.
(Se solo alla mia prof di italiano di terza liceo fosse stato chiaro il concetto di “cultura popolare”, avrebbe apprezzato che, mentre declamava «Amor, ch’a nullo amato», dall’ultimo banco si fosse levata la mia vocetta che esclamava «Ma questo è Venditti», invece di bocciarmi).
Quando la settimana scorsa i giornali si sono precipitati a celebrare l’anniversario, è stato chiaro che Beautiful è finito da un secolo. Sì, va ancora in onda, ma non è più quella cosa che potevi riaccendere dopo sei mesi e metterci mezza puntata a capire a che punto stessero le cose.
Qualche anno fa ho avuto un brutto episodio di tossicodipendenza da Forrester (i Forrester sono la principale famiglia protagonista di Beautiful, ve lo dico casomai aveste vissuto in una capanna nella foresta negli ultimi trent’anni).
Installai sul computer un vpn – uno di quegli aggeggi che ingannano la connessione e le fanno credere che ti trovi in un’altra nazione – solo perché il sito della Cbs non faceva vedere le puntate fuori dagli Stati Uniti. A mezzanotte guardavo la puntata che era andata in onda qualche ora prima lì e che sarebbe andata in onda dopo un anno qui.
Erano gli anni in cui le tv generaliste iniziavano a sbandare alla ricerca d’un pubblico che non esiste, e la Cbs non faceva eccezione: voleva i giovani. A un certo punto fecero crescere di botto tutti i figli – di Brooke, di Ridge, di incesti assortiti – e decisero che dovevamo appassionarci a storie di ventenni. Fu allora che gli attori della prima tornata capirono che gli conveniva prepararsi un futuro, e i personaggi cominciarono a sparire per mesi in misteriosi viaggi di lavoro che servivano agli interpreti per venire in Italia a concorrere a una stagione di Ballando con le stelle o a scattare la campagna pubblicitaria d’un qualche mobilificio di provincia.
Adesso tutti gli incesti sono tra ventenni biscugini di ex personaggi minori, e per seguire Beautiful bisognerebbe – che follia – davvero seguirlo. Una delle pagine Facebook cui m’iscrissi nella mia fase di tossicodipendenza ogni tanto posta trame fantasiose concepite dai fan. In esse, ha un ruolo precipuo Meghan Markle, quella tizia americana che ha smesso da qualche anno di fare l’attrice per sposare un principe inglese. Poiché sono rimasta agli anni Novanta non tanto nel settore “personaggi di Beautiful” quanto in quello “monarchia inglese”, ogni volta che mi compare uno di questi post devo controllare che sia una fantasia da social e non una notizia.
Della stagione di gloria che ricordiamo noialtri che scriviamo sui giornali – quando Brooke inventava il Belief, il tessuto magico che non si stropicciava, giacché Brooke era laureata in chimica, mica una sciacquetta; quando Sally Spectra rubava i cartamodelli dei Forrester per produrre vestiti identici ma più economici; quando Taylor, la psichiatra più disturbata della storia della tv, perdeva la memoria e si sposava con Sandokan – di tutta quella golden age non è rimasto quasi nulla.
Di Sally Spectra è morta l’attrice, di Stephanie Forrester il personaggio, a Ridge hanno cambiato faccia (il mascellone era convinto che avrebbe avuto una seconda carriera come musicista: l’ottimismo è il profumo della vita).
Cosa ne possono sapere, i contemporanei che guardano un Beautiful pieno di ventenni, coi loro pochi anni, dei ricordi di noi che ne abbiamo cento. Cosa ne sanno di quando, negli anni Novanta, ogni volta che uno aveva l’espressione da boccalone, gli si diceva «sembri Thorne» (il cornutissimo fratello di Ridge, che da Caroline – o forse era la gemella – a Brooke tutte sposavano per ripiego e poi tutte tradivano).
Chiunque fosse viva negli anni 90, quando Beautiful era il nostro romanzo di formazione, sa che il miglior personaggio passato di lì, ma forse proprio il miglior personaggio mai ideato dalla serialità televisiva mondiale, è Sheila, l’infermiera pazza che sposava il patriarca.
Ci si differenzia, tra anziane spettatrici, sul ricordo più caro. Il mio è tardivo, riguarda la fase di tossicodipendenza in cui guardavo le puntate americane, e già la vecchia guardia aveva nipotini. A un certo punto Brooke non si sentiva bene, e andava dal medico certa che si trattasse di menopausa (una parola che scommetterei non fosse mai stata detta, prima di Beautiful, in una soap opera: che spregiudicatezza, che innovazione).
Se avete capito come funzionano i vestiti con le tende e le teste di cavallo, già sapete come finì anche questo svincolo di trama: nonna Brooke era incinta. Purtroppo non ricordo di chi: poteva essere chiunque, anche Sheila tornata a fecondarla con una siringa.