Il “dibattito scientifico” fatto dagli scienziati sui giornali e in tv è ormai diventato il principale fattore di analfabetizzazione scientifica dell’opinione pubblica.
Il problema è che così la maggior parte delle persone si convince che la scienza “funzioni” come funzionano queste discussioni, e che ci si possa scientificamente persuadere della fondatezza di una teoria con gli stessi mezzi con cui si può persuadere qualcuno a crederci.
Si prende un dato vero, meglio se particolarmente eloquente per chi ne abbia motivo di speranza o di paura, e lo si utilizza per confermare la prima o la seconda. Il metodo scientifico ridotto a psicagogia sofistica.
Le terapie intensive sono vuote (vero), quindi la pandemia non c’è più e tutto può ripartire business as usual. Oppure, al contrario: non è stata ancora accertata alcuna significativa mutazione del virus (vero), quindi in realtà è tutto come a marzo-aprile, i fattori di rischio per la popolazione sono i medesimi e se ci sono meno contagiati e molto meno gravi è solo merito del lockdown e delle mascherine.
Tutte le teorie sbagliate sono fondate su dati giusti, come insegnava già Aristotele al tempo in cui i sapienti, per fortuna, non erano solo virologi, epidemiologi e rianimatori. Per cui due teorie contrarie non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe false.
Anche da questo punto di vista il dibattito scientifico è la prosecuzione del dibattito politico con altri mezzi e ne replica la sostanziale irrazionalità. Questa non nasce però dalla stupidità o dall’ignoranza, ma dalla riduzione del problema del governo (politico o scientifico) di qualunque fenomeno complesso – come una pandemia – al framework logico e concettuale del sistema di comunicazione di massa.
Se i rapporti tra sapere, potere e comunicazione sono complicati e pericolosi da sempre, da pochissimi anni i media hanno cessato di essere ancillari, funzionali e subordinati a istanze più “alte” e sono diventati a tutti gli effetti la principale forma del sapere e del potere di massa, cioè il luogo delle idee e delle decisioni, il modo in cui di tutto e di ogni singola cosa si decreta il falso e il vero, il giusto e lo sbagliato.
Questo accade in tutto il mondo. Anzi, proprio la pandemia del Covid-19 ha dimostrato che il sistema della comunicazione globale ha imposto un linguaggio che la politica ha solo potuto seguire e servire.
In Italia, poi, a questo fenomeno si aggiunge uno specifico nazionale legato all’assenza, sia in televisione, sia sulla carta stampata, sia sul web – se non in nicchie quantitativamente irrilevanti – di un giornalismo “diverso”.
È tutto infotainment, alto o basso, pretenzioso o squadristico. Tutta comunicazione che non ha a che fare con l’informazione, se non come materia prima di produzioni di consumo.
Anche gli aspetti più stilistici degli scontri tra i maschi alfa della scienza italiana – che si misurano a vicenda l’indice di Hirsch, giocando a chi ce l’ha più grosso e si ingiuriano reciprocamente cavillando sulla rispettiva virilità scientifica – riportano agli schemi più caratteristici della polarizzazione mediatica, la quale non ha un mezzo ma solo estremi, non ha misteri da sondare ma solo segreti da svelare, non ha discussioni da approfondire ma soltanto affronti da regolare nel sangue. Infine, non ha dubbi da coltivare, ma verità di cui rivendicare il titolo e l’esclusiva.
Nel sentirsi protagonisti di uno spettacolo mediatico, di cui non controllano più né il codice linguistico né il paradigma tecnologico né il destino economico, gli scienziati, come i politici, diventano solo figuranti fungibili di uno show che è grosso modo sempre – di qualunque cosa si parli: dei destini dell’Unione Europea o della carica virale del Covid – lo stesso show, con gli stessi personaggi, le stesse dinamiche, lo stesso pubblico.
Quel che è peggio, finiscono per assumere come propria identità pubblica proprio quella televisiva o social e per ritrovarcisi comodamente.