È l’estate di Luca Guadagnino. No, non perché a settembre arriva su Sky la sua serie sugli adolescenti di oggi che s’innamorano (non l’ho vista, ma immagino s’innamorino: che diamine altro devi fare da adolescente? Scindere l’atomo?) nella base di Aviano.
Perché è l’estate in cui si combinano due elementi apparentemente convergenti: gli alberghi perlopiù non riaprono (stime non ufficializzate parlano dell’82 per cento delle strutture che saltano la stagione, e ieri Federalberghi ha ufficialmente detto che c’è il 99 per cento in meno di stranieri; urge un’indagine su quell’uno per cento); e nessuno ha soldi per andare in vacanza.
Quindi cosa fanno, i felici pochi che non hanno esaurito i giorni di ferie usandoli durante la quarantena? Se hanno amici ricchi, iniziano a essere molto gentili con loro.
Perché questa è l’estate in cui tutti i benestanti affittano ville – casali, masserie: viviamo in un paese lessicalmente così frantumato che non ha neanche un nome unico per chiamare le case in campagna, al lago, in luoghi di villeggiatura.
Lo fanno perché gli alberghi sono chiusi, ma lo fanno anche perché la casa dà l’impressione d’essere meno a portata d’infezione dell’albergo, meno gente che va, gente che viene, meno scambi di particelle. La gentile signora che te la affitta la sanifica prima che arrivi (si spera), e per un mese non devi più pensarci: non ti mescolerai con estranei. Se mescolarvi con gli estranei non è lo scopo precipuo della vostra estate, converrete che è la soluzione ideale.
È l’estate di “Chiamami col tuo nome”, un film che è impossibile guardare senza chiedersi perché non affittiamo ville tutte le estati della nostra vita, perché abbiamo dovuto aspettare la quarantena, come abbiamo potuto trascurare di fare gli auguri di compleanno a quell’amica che ha affittato per tre mesi una villa al lago, chissà se c’è una stanza per noi.
Solo che “Chiamami col tuo nome” è un film col trucco, e il trucco è stare a metà tra Mike Nichols e “Il tempo delle mele”. Farti passare l’estate della perdita dell’innocenza – che ti sembra declinabile al presente anche all’età dei datteri, perché vivi in un tempo in cui essere adulti è disdicevole – in una casa in cui si conversa dell’etimo di “albicocca” e di Bach, dell’imperatore Adriano e della battaglia del Piave, in cui tutti parlano almeno tre lingue e non come le parla Melania Trump, in cui se c’è un pianoforte a coda c’è anche qualcuno che sa suonarlo.
E, allo stesso tempo, fartela passare, quell’estate, in un posto in cui la musica sia una quantità finita e stia nelle musicassette, in cui gli appunti si prendano sui quaderni, in cui sui muri del paese ci siano i manifesti “Vota Pci”, in cui i bar abbiano ancora l’insegna gialla che dice che dentro c’è un telefono, e dentro ci sia in diffusione Loredana Berté che canta “J’adore Venise” (i Fossati di quand’eravamo bambine non torneranno più).
Vi auguro di avere amici ricchi che abbiano affittato casali in Toscana o case in Salento, vi auguro che v’invitino e non s’aspettino che contribuiate alle spese (un’abitudine invero indecorosa di alcuni di coloro che affittano case per l’estate, e poi passano a chiedere l’elemosina agli ospiti). Vi auguro piscine in cui riposare, meriggiare, oziare, e inconcludere. Vi auguro che vicino a quella piscina non passi mai una mrs. Robinson (scusate se mescolo i riferimenti cinematografici) a complicarvi l’estate.
Epperò non basterà.
La mia estate da villa fu nel decennio successivo a quella di “Chiamami col tuo nome”. Avevo vent’anni ed ero fisiologicamente senza una lira, avevo un moroso trentaequalcosenne anche lui perennemente al verde, ma con quello che basta a rallegrarti la vita: parenti americani ricchi.
Avevano affittato una villa in Toscana. Non ricordo neanche come si chiamassero, ma di quell’estate mi manca tutto.
I bikini di cotone minuscoli che non si asciugavano mai; le videocassette del “Silenzio degli innocenti” in inglese, tutti che guardavano il film e io che dicevo «Eh? Che ha detto?»; le conversazioni a tavola in cui gli italiani spiegavano agli americani che noi mai avremmo rimproverato a Clinton le sue amanti, noi al politico con amante «gli stringeremmo la mano e gli diremmo “Bravo”»; i giornali che bisognava andare a prenderli in macchina, eppure allora lo facevamo, e adesso pure scaricarli sul telefono ci pare troppo faticoso.
Se penso a quel che ero e a quel che eravamo, che nostalgia che ho per noi e per me.
Se avete vent’anni e per caso passate davanti a questo articolo, ho una preghiera per voi: se in questa lunga estate di stanze degli ospiti avrete un flirt con una pesca, o se mentre meriggiate in piscina qualcuno vi dice che il futuro è nella plastica (scusate, continuo a mischiare i riferimenti), prendete appunti.
Vi sembra che non stia succedendo niente, lo so, ma è lì che sta il romanzo che vorrete scrivere tra venti o quarant’anni.
È lì, quando qualcuno chiede «Cosa si fa da queste parti?», e qualcun altro risponde «Si aspetta che l’estate finisca».