La settimana scorsa, nel programma sulla Bbc della storica Mary Beard, Lockdown Culture, c’erano cinque preziosi minuti filmati da Martin Scorsese.
Era a casa sua, come tutti, strologava dal momento storico, come tutti, montava i propri pensierini con delle scene d’un film di Hitchcock (“Il ladro”), come nessuno. E diceva che all’inizio la quarantena era quasi stata un sollievo: bisognava stare a casa per forza, non si era tenuti a fare nessuna delle cose che uno avrebbe dovuto fare in circostanze normali.
Il sollievo non è durato, se il tuo mestiere è essere celebre. Se il tuo mestiere è essere celebre ma non puoi fare nessuna delle cose che i celebri fanno di solito – andare alle prime dei film, fare concerti, inaugurare profumerie – allora hai tutto il tempo del mondo per la mia richiesta, la mia diretta Instagram, la mia buona causa.
La buona causa è la versione ricattatoria del meccanismo «Bobo Vieri, che me lo fai un video per la mia ragazza che compie gli anni?», ovvero della richiesta che il famoso riceve abitualmente e che non soddisfa a rischio e pericolo della propria popolarità («Sembrava tanto carino e invece se la tira», dirà a tutte le sue amiche la fan che voleva passare sua madre al telefono all’attore la sera che l’attore era proprio di fretta).
La richiesta che attiene alla buona causa, se non la soddisfi, non sei solo uno che se la tira. Sei uno della cui morale l’opinione pubblica ha il diritto e il dovere di dubitare.
Che razza di essere umano sei, se non dici la tua sulla polizia che picchia gli afroamericani, se non solleciti a donare fondi per la ricerca sulla tal malattia, se non dici ai tuoi concittadini di mettere la mascherina?
Come minimo sei un insensibile, se non un razzista, se non uno che spera nella selezione della specie. Credevi d’esserti limitato a non rispondere a qualcuno che t’aveva taggato su Instagram, e invece stavi ponendo le basi per essere considerato come minimo immorale.
Se poi il fatto ha una copertura stampa, l’ignavia ti porrà tra i cattivi nelle pagine dei quotidiani. Caio Famoso che non ha risposto alla domanda «come risolvere il conflitto razziale in America» (o ha risposto «Ma che ne posso sapere io che all’esame di Storia Americana presi 18») rischia di ritrovarsi trumpiano nell’infografica di domani. Volevi essere Bartleby, e ti ritrovi Bannon.
La bontà è obbligatoria, e non è solo una convinzione di chi con la bontà ci lavora e, per perorarti la propria buona causa, è disposto a farti sentire un verme se non aderisci.
L’anno scorso, quando al largo di Lampedusa era bloccata una nave di profughi, e Richard Gere salì a bordo, ho partecipato a un paio di cene di ceto medio riflessivo le cui conversazioni erano monopolizzate dall’interrogativo «Perché Richard Gere ci va e [Tizio Italiano Famoso] no?».
Ho provato ogni risposta, da «perché ognuno fa quel che gli pare» a «perché non servirebbe a niente, se non all’immagine di [Tizio Italiano Famoso]»: venivo guardata come il treno viene guardato dalla mucche che pascolano.
Quando cominciavo a raccontare la storiella d’epoca dei soccorsi di Vermicino rallentati dalla scorta di Pertini e di come certe presenze servano solo alla vanità di chi presenzia, sentivo l’attenzione vacillare, e dopo poco qualcuno tornava sul punto: sì, ma Richard Gere c’è andato. Eh, d’altra parte era ufficiale ma pure gentiluomo.
Una volta gli appelli erano per le buone cause proprie, non altrui. Il ricatto non era «mica te ne sbatterai dei poveri, dei malati, dei vessati», ma «hanno firmato tutti, non vorrai essere l’unico che non c’è». Erano i tempi in cui il mondo del cinema firmava appelli che riguardavano il mondo del cinema, e Citto Maselli, che raccoglieva le adesioni, diceva «Hanno firmato tutti, da Age a Zavattini». Poi abbiamo importato dall’America la pervasività della beneficenza, sostituta più cool dello Stato.
Sei anni fa erano tutti lì che si rovesciavano addosso secchi di ghiaccio. Era per una buona causa, certo. Ed era difficile dire di no, certo: come dici di no a un malato terminale che ti chiede un gesto eclatante che ti costa due minuti di tempo e molte visualizzazioni sui social, e che sensibilizzerà le platee alla sua malattia?
Sei anni dopo: per la Sla ancora non c’è una cura; nel 2019 è morto il malato di Sla che aveva inventato l’icebucket challenge (significherebbe «sfida dei secchi di ghiaccio», ma qui l’abbiamo sempre chiamata in inglese per sentirci emancipati); e io non ho ancora capito che cosa significhi «sensibilizzare»: ogni volta che al ristorante ci portano il vino nel secchiello del ghiaccio, dovremmo rattristarci pensando alle malattie incurabili? Avremmo dovuto farlo per almeno un mesetto? Quanto dura, la sensibilizzazione? A cosa serve?
Le celebrità si dividono in quelle di cui hanno il numero cani e porci e quelle che il numero lo cambiano spesso. La divisione cambia l’invasività delle buone cause nelle loro vite. Il secondo insieme non declina personalmente; alla cinquantesima richiesta di aderire a una buona causa nel giro d’un mese, dice al proprio ufficio stampa di non inoltrare neanche più il catalogo di bontà obbligatorie: «Di’ che sono in ritiro spirituale» (in tempi normali, uno poteva dire che era sul set, o al capezzale della mamma malata, o in vacanza; ma adesso c’è questa maledizione: sanno che non hai niente da fare tutto il giorno, sanno che non hai una solida ragione per dire di no alla petizione contro l’estinzione delle api).
Neanche il primo insieme declina personalmente (cosa sei ricco e famoso a fare, se non per avere uno staff che dice di no per tuo conto). Però, se è furbo e non si fa spaventare dai toni delle associazioni di buoni (che uno dei famosi con cui ho parlato ha definito «minatori»), risponde «Ma certo, volentierissimo», apponendo poi un’avversativa. «Però sai, non posso fare niente senza il permesso della mia agente, solo per forma dovresti passare da lei». Lei poi declinerà – è pagata per farlo – e tu ne uscirai tranquillo e asciutto.
Il contatto diretto e la fama non mediata sono una bellissima cosa, ma rischi la fine dei coniugi Ferragni, aggrediti domenica dai volenterosi carnefici delle buone cause che, sui social, li hanno accusati di non occuparsi abbastanza della buona causa del momento, quella delle sommosse americane.
La coppia ha gestito il contrattempo come al solito (il marito si è agitato e ha dato mille spiegazioni, la moglie non ha fatto un plissé), cioè come lo gestisci se, la celebrità, l’internet te l’ha data e l’internet te la toglie. Quando il marito, in una serie di video su Instagram, ha fatto notare che veramente lui e la moglie avevano messo link di petizioni e tutte le cose inutili che si possono fare per sensibilizzare (qualunque cosa significhi), gli invasati dell’impegno hanno risposto che non era abbastanza. Non è mai abbastanza, nella relazione disfunzionale tra i ricchi e famosi e quelli che li guardano dallo spioncino.
Ieri Ryan Reynolds e Blake Lively, due attori americani bianchi, hanno detto che ai loro figli bianchi che avranno la fortuna di non essere fermati a casaccio dalla polizia insegneranno che esiste il razzismo sistemico e che non bisogna esserne complici, e parleranno dei loro pregiudizi e cecità più apertamente di quanto i loro genitori abbiano fatto con loro; e hanno donato duecentomila dollari all’associazione per l’avanzamento delle persone di colore.
L’internet ha risposto sbuffando: ma se vi siete sposati in una piantagione di schiavi. (La tenuta dove Lively e Reynolds hanno festeggiato le nozze, nel sud degli Stati Uniti, una volta era una piantagione, e una volta nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti c’erano gli schiavi. C’erano anche al Colosseo, principale meta turistica romana: combattevano contro i leoni. Nessuno l’ha mai rinfacciato ai visitatori nei millenni successivi).
«Mi ricordo l’ultima volta che vidi Kiarostami, cenammo a Lione, qualche anno fa, e mi disse: “Non fare niente che tu non voglia fare”. Aveva capito. Sapeva» (Martin Scorsese, Lockdown Culture).