Le Madrid di Almodóvar. La città plurale in cui tutto è possibile. Il centro di libertà del post franchismo. Dove le case sono vignette. Balloons che esplodono in onomatopee. Pop-up che sollevano i passanti. Per le strade di Madrid si può nascere. Come il protagonista di “Carne Tremula” (1997). O si può morire, come il figlio di Manuela in “Tutto su mia madre” (1999). A Madrid si può tutto. In modo tragico e romantico, appassionato, mai banale.
A volte è la Madrid intensa ed effervescente. Quella di “Pepi, Luci, Bom e altre ragazze nel mucchio” (1980). Quella della gioventù. Del giovane Pedro e della giovane Madrid a dittatura finita. Il legame tra il regista e la città racconta entrambi. Ha 30 anni quando dirige le ragazze nel mucchio. Vive tra le strade della movida madrilena e in appartamenti utili alle riprese. Pepi è in via Dottor Esquerdo, dove visse Blanca Sanchez. Bom invece nel cuore di Malasaña, in via Palma 14. Qui ha vissuto anche Almodóvar. Una casa di stelle ribelli, come l’ha chiamata lo scrittore Francisco Umbral. Ex studio del duo di pittori Los Costus. I quadri che appaiono nel film sono loro. Quelli sotto cui dormì anche il regista.
Pittura, musica, moda. Almodóvar rivoluziona e cambia il volto di Madrid. C’è chi si chiede cosa sia venuto prima. Se il regista o la città. Di certo la capitale spagnola ha un privilegio a molti precluso. Un rapporto confidenziale con l’arte.
Quando Almodóvar la riprende sceglie spesso di allontanarsi. Cerca l’immagine d’insieme. Il paesaggio rinascimentale. Ne “L’indiscreto fascino del peccato” (1983) cattura l’ingresso di Madrid dal viale d’America. L’inquadratura cita il pittore Antonio Lopez e il quadro “Madrid desde Torres Blancas”. Il punto di vista è lo stesso. Il viale incorniciato dal vecchio edificio Cepsa. Avvolto dalle insegne luminose. La differenza è nel traffico. Il pittore lo elimina. Almodóvar lo esalta. È un fatto politico. Quel via vai di macchine e schiamazzi.
In “Carne Tremula” Victor nasce per strada, nel 1970. Un deserto di cemento. «Mira Victor, Madrid». Trent’anni dopo Victor è in macchina ad assistere la moglie in travaglio. Ma il traffico è troppo e anche suo figlio deve nascere per strada. Si rivolge a lui e sorride: «guarda il marciapiede qui fuori, quando sono nato io non c’era nessuno, la gente era chiusa in casa».
L’arte serve ad Almodóvar come nesso. È il filo che lega i suoi racconti alla città. Ne “La legge del desiderio” (1987) gli edifici diventano quadri di Hopper. Come nella Torino di Dario Argento. I bar all’angolo sono versioni madrilene de “i notturni”. Il vuoto del pittore realista è riscoperto. Una visione personale che rielabora la citazione. In “Légami” (1989) il dipinto di una casa si trasforma in essa. Madrid compare dalle macchie di colore.
È una città magica. O perlomeno stupefacente. Qui anche i telefoni che legano gli avvenimenti di alcune “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” (1988) sono oggetti strani. Riducono lo spazio. Si appropriano di luoghi invisibili. Dove anche nel “Matador” (1986) una donna può apparire e scomparire dal fumo bianco dei tombini. Dove Angelo (Antonio Banderas) può percepire gli spostamenti del torero solo chiudendo gli occhi. Come un sensitivo. Qui il film si chiude su un’eclissi. Il rosso si stende sulla città, fino a farla scomparire.
Spesso Madrid è solo un’idea. Ritagli di giornale incollati assieme. La vista dalla terrazza di Pepa in “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” è la più bella cartolina della città. Anche se non esiste. Da Via Montalban 8 non vedremo mai il Metropolis accanto all’edificio Telefònica, subito dietro alla chiesa dell’ordine dei Calatrava. Nel cinema di Almodóvar sì. E giunti a Madrid si cercherà senza sosta quello stesso paesaggio immaginario. In “Légami” la finzione è dichiarata. Nelle scene nello studio del regista un cartonato della città si staglia come splendida bugia.
L’atmosfera non è però mai falsata. Perché Almodóvar, principe della movida anni ’80, non ha bisogno di inventare. Quell’ambiente è casa sua. Come la vita sordida del quartiere Chueca di “Légami”. Per San Gregorio, Ricki (Antonio Banderas) cerca sonniferi per la donna che ha rinchiuso in casa. Questa, legata, può solo osservare il soffitto. Un tetto vetrato da cui si vedono le stelle. La città è sempre in tensione. Cerca di riversarsi in quei soggiorni dove può accadere di tutto.
Al tempo stesso è un punto di riferimento preciso e statico. Su una stessa via abitano tre film diversi. Lungo Via Alfonso inizia “Tutto su mia madre”, poi prosegue al teatro Bellas Artes. Poco più in là, al numero 38, Marina Osorio (Victoria Abrile) viene sequestrata in “Légami”. Ci troviamo anche Pepa (Carmen Maura), in quel giorno sull’orlo di una crisi di nervi. Non appartengono a Madrid. Ma vengono comunque inghiottite. Vengono da fuori, come Almodóvar.
Sbarcate nella capitale ricercano l’habitat rurale. Pepa costruisce una fattoria sul balcone. Con tanto di galline e piante esotiche. C’è chi vuole scappare e chi vuole tornare. La madre di Salvador (Antonio Banderas) in “Dolor y Gloria” (2019) vuole «la sua città» prima di morire. Madrid è l’inizio e la fine delle figure almodovariane.
Un territorio che cambia volto. Che si fa messaggio. Si allarga alle periferie, ma non scompare. È la musa a cui Almodóvar dedica il suo cinema. Meno annunciata della Manhattan di Allen. Perché Almodóvar non è nato a Madrid. Ci è arrivato. Come Fellini a Roma. Lo sguardo dello straniero sa catturare la città. Con l’emozione del turista e la curiosità dell’avventuriero. Perché non racconta ciò che sa. Ma chiede al cinema di aiutarlo a scoprire.
Si può decidere. Guardare Almodóvar per scoprire Madrid. Andare a Madrid per capire Almodóvar. In nessun caso possiamo pensare uno, senza scoprire l’altra.