Bucarest. Toni Erdmann, ambasciatore tedesco dalla prodigiosa dentatura e folti capelli, si trova a casa di conoscenti rumeni per decorare a mano le tradizionali uova della Pasqua ortodossa.
Prima di andare via, Toni si mette al pianoforte del soggiorno e invita la sua giovane assistente personale, Whitney Schnuck, a cantare The Greatest Love of All della più celebre Houston. Dopo qualche evidente titubanza, la signorina si lancia in un’interpretazione eccezionale che sorprende il pubblico del soggiorno (e quello in sala), anche lei sbigottita da sé stessa, come se non sapesse più chi fosse e cosa stesse facendo là. Già, perché l’improvvisata cantante non si chiama Whitney Schnuck, bensì Ines Conradi, e non è una segretaria, ma una consulente aziendale tedesca in trasferta in Romania. Nemmeno quell’uomo è un ambasciatore, ma un insegnante di musica a cui è morto il cane; i suoi denti sono posticci come uno scherzo di Halloween e i capelli solo una grossolana parrucca; il suo nome non è Toni Erdmann, ma Winfried, cioè il padre della figlia.
Chi è, dunque, quell’uomo? Winfried Conradi (interpretato dall’attore austriaco Peter Simonischek) è un simpatico sessantenne che ama andare in scena con familiari ed estranei, tra burle e camuffamenti; proprio a casa della sua ex-moglie, s’accorge che la figlia Ines (Sandra Hüller), quarantenne in carriera, fa finta di parlare al cellulare pur di isolarsi dal resto della combriccola, una moderna nevrosi da iPhone che Winfried non riesce a capire.
Deciso a riavvicinarsi a sua figlia, Winfried vola allora a Bucarest per farle una sorpresa: invece, la spontaneità affettuosa del padre, di fronte a colleghi e clienti, manda in tilt la donna, che non tarda molto a rispedire Winfried in Germania, rimpiangendo la decisione mentre saluta il taxi che lo accompagna all’aeroporto. Ma Winfried su quell’aereo non ci sale, e torna in scena appunto attraverso Toni Erdmann, un nome che nasconde personalità del tutto inverosimili: prima coach del miliardario Ion Țiriac, poi alto diplomatico tedesco, infine collega di Ines. Non essendo più il padre (per gli altri), Winfried/Toni può scorrazzare liberamente nella vita della figlia senza poter essere allontanato: il suo intento non è, però, quello di spiarla, o di giudicarla, bensì quello di ritrovarla, o meglio, di lasciare che lei si ritrovi.
La scelta di Bucarest come location principale di Toni Erdmann, pluripremiato film del 2016 della regista tedesca Maren Ade, è funzionale per collocare la protagonista Ines in un altrove nel quale ha affogato la sua identità. La capitale rumena, infatti, ha subito negli ultimi anni una metamorfosi che l’ha trasformata dalla capitale povera del vecchio regime comunista a metropoli internazionale.
In un passaggio cruciale del film, Ines ci spiega che la Romania è ormai una meta appetibile per gli investimenti delle multinazionali, e che gli stessi manager della capitale, poliglotti e cosmopoliti grazie ai loro studi internazionali, sono perfettamente integrati nel mondo ultraliberista degli affari globalizzati. Per contro, proprio un giovane manager di Bucarest le rivela, però, che gli stessi giovani rumeni non conoscono più la Romania.
La regista tedesca insiste nel mostrarci gli interni claustrofobici e spersonalizzanti della capitale rumena: centri commerciali, piscine, uffici, alberghi, cantieri, discoteche, dove i protagonisti del film si rincorrono come marionette vogliose di incontrarsi (o sfuggirsi) solo per recare un vantaggio alle loro carriere.
La Bucarest di Toni Erdmann è, dunque, una capitale sfilacciata in cui si muovono affetti e radici spezzate: un tema già trattato dalla cineasta tedesca nei suoi film precedenti: la giovane insegnante Melanie nella pellicola d’esordio Der Wald vor lauter Baumen, alle prese con il difficile (dis)adattamento a Karlsruhe, e la coppia in crisi vacanziera di Alle Anderen, persa negli augusti interni e i labirintici spazi di una Sardegna raramente così claustrofobica, altra persino alla realtà italiana (cinematografica e non).
Una trilogia che si potrebbe definire della lontananza, dove la Bucarest vista in Toni Erdmann appare come meta finale. Ma c’è di più: girare in tre lingue nella capitale avamposto della nuova frontiera Ue regala al film una dimensione parallela, che riflette sui concetti, molto attuali, di mobilità, di diritti, di pari opportunità, di identità di lavoratori e aziende: è il capitalismo delle multinazionali anni Dieci, raffigurato dalla Ade in tutta la sua grottesca follia.
Ed è in questa cifra stilistica, tenuta in piedi per quasi tre ore, che la pellicola trova nei suoi molteplici piani di lettura la sua coerenza formale: perché Winfried/Toni non è affatto il padre temerario ed eroe che discende agli inferi per salvare la figlia che le è stata sottratta; la sua unica arma è l’umorismo (anzi, quell’anti-humour ispirato al performer statunitense Andy Kaufman, per stessa ammissione dell’autrice), la sua corazza la leggerezza, la sua parabola una mera esposizione di fallimenti: è il nietzschiano der Mut will lachen, il coraggio vuole ridere. Persino le sue maschere e i travestimenti sono una burla del (super)eroe, non riescono nemmeno nel tentativo, mai veramente azzardato, di redimere: servono solo far emergere alla luce l’incubo, a dargli una dimensione diurna, a prendere a sberle l’uomo nero di cui probabilmente sua figlia ha ancora paura; a dirle, sussurrando, cantando, gioiosamente perdendo, “ti ricordi?” oppure “ti voglio bene”.
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