Non tutti gli italiani hanno passato la quarantena a casa. Di giorno e qualche volta anche di notte, almeno due persone hanno trascorso i tre mesi della pandemia in un palazzo di oltre 11mila metri quadrati nel centro di Torino, cercando di proteggere e tutelare 24 mummie umane, 17 mummie animali, un prezioso papiro di 1847 centimetri e altri 37mila reperti del secondo museo più importante al mondo dedicato alla civiltà nilotica, dopo quello de Il Cairo.
«Col direttore Christian Greco abbiamo scherzato spesso dicendo che ci sentivamo come i protagonisti del film “Una Notte al Museo” anche se lavoravamo di giorno. Per i nostri 22 curatori è stato più facile lavorare in smart working e fare ricerca perché la nostra collezione è stata completamente digitalizzata. Ma i nostri reperti hanno bisogno di una manutenzione costante, non potevamo restare a casa. E poi bisognava pagare le bollette, gestire il rapporto coi fornitori, organizzare i turni di lavoro», spiega Evelina Christillin, presidente del Museo Egizio dal 2012.
«Quando un museo va in lockdown non può mica chiudere la sua produzione come un’azienda. Bisogna rispettare tutti i protocolli per la conservazione passiva dei reperti: guardie armate presenti 24 ore, abbassamento delle luci, valori idrometrici e temperatura costante», chiarisce Greco.
Greco e Christillin hanno dovuto lavorare anche per far rispettare gli stessi protocolli per conservare i reperti del museo in giro per il mondo nelle due mostre itineranti: una a San Paolo nelle sale espositive del Centro Cultural Banco do Brasil l’altra a Kansas City, nel Nelson-Atkins Museum of Art, entrambi chiusi per lockdown.
Dopo una serie di aperture e chiusure sconnesse dovute ai vari decreti del governo, Christillin ha deciso di aprire in modo definitivo il 2 giugno, esattamente cinque anni dopo l’inaugurazione della nuova sala del 2015 che diede nuovo impulso al museo. All’epoca entrarono gratuitamente 12mila persone, quest’anno solo 1350: il massimo possibile.
La pandemia ha costretto a rivoluzionare le abitudini del museo: aperto solo per tre giorni alla settimana (venerdì, sabato e domenica), all’interno possono entrare su prenotazione solo 288 persone alla volta, quando in media ce n’erano al giorno almeno 2mila contemporaneamente.
«Siamo molto soddisfatti di come sono andati i primi due fine settimana in cui abbiamo aperto a pagamento, ovviamente abbassando i prezzi perché ci siamo resi conto della situazione. Abbiamo previsto anche un biglietto unico per famiglia di 18 euro. E la risposta è stata positiva», chiarisce Christillin.
«Sinora sono arrivate al museo 2.500 persone ogni weekend. Un numero disastroso in condizioni normali perché di solito, nei fine settimana, in questo momento della stagione ne arrivano 12mila. Ma senza le scuole e turismo è difficile pretendere di più».
Per i visitatori gli ingressi contingentati e i percorsi delineati sono un vantaggio perché permettono di godere con più calma e spazio la collezione. Ma per le casse del Museo la differenza si sente eccome: nel periodo di lockdown il museo ha perso 34mila euro al giorno. Con il vecchio prezzario per raggiungere il pareggio dei conti servivano 1600 persone al giorno. Con i prezzi più bassi, gli orari ridotti, e i giorni di chiusura il numero dovrebbe essere ancora più altro. A queste condizioni il museo non potrà continuare così per sempre.
«Dal 2015 non abbiamo mai chiesto un centesimo allo Stato. Siamo sempre riusciti a raggiungere un autofinanziamento tra il 102 e il 108%. Ed è grazie a questo risparmio che potremo andare avanti fino a settembre – ottobre. Ma poi? Le risorse non sono infinite», spiega Christillin.
Il 29 giugno il Museo presenterà il bilancio del 2019 in positivo: 400mila euro spesi per i restauri e 300mila per il rifacimento della sale storiche al piano apogeo. E nonostante questo ha fatto registrare un piccolo utile. «I nostri soci fondatori, la fondazione CRT e La Compagnia di San Paolo ovviamente sono bersagliati di richieste del territorio ed è normale che privilegino le richieste per progetti dedicati alla sanità e al sociale. Da tempo le finanze del Comune di Torino e della Regione Piemonte non sono così floride. L’unica alternativa è un aiuto da parte del ministero dei Beni culturali».
Finora i 58 dipendenti del Museo hanno beneficiato durante la pandemia di nove settimane del fondo integrativo di solidarietà, un surrogato della cassa integrazione che non copre tutto lo stipendio. Ma non solo la fondazione del Museo ha dovuto anticipare i fondi, in futuro non potrà più contare nemmeno su questi, perché nel Decreto rilancio il governo non li ha prolungati per i beni museali.
Inoltre la chiusura in alcuni giorni della settimana di solito aperti ai turisti ha fatto lievitare i costi per le guardie private armate che devono proteggere la collezione: 22mila euro al mese.
Per non parlare anche dei costi legati alla sanificazione e ai dispositivi di protezione per i visitatori. Come la mascherina, obbligatoria da indossare, che viene fornita dal museo al costo di 50 centesimi a chi ne è sprovvisto.
In teoria ci sarebbero i 210 milioni del Fondo cultura dedicati ai musei non statali ma mancano ancora i decreti attuativi, promessi dal governo per fine mese e di cui ancora non c’è conferma. Potrebbero non bastare, ma sarebbe già qualcosa.
In attesa dei fondi il Museo Egizio non si ferma: a ottobre è in programma una mostra contemporanea in due città europee: Tallin ed Helsinki, mentre la mostra temporanea di Kansas City si trasferirà ad Ottawa e quella di San Paolo farà tappa a Brasilia.
«Stiamo lavorando col ministero dell’Istruzione per essere accreditati come ente di ricerca perché abbiamo tra ricercatori e curatori molti più egittologi noi del resto delle università italiane: 22 contro 13. Per questo stiamo pensando di organizzare delle summer school come abbiamo realizzato negli anni scorsi con Ucla di Los Angeles e l’Mit di Boston. Questo ci consentirebbe di accedere a dei fondi importanti ma anche di garantire una formazione pratica, dottorati e master. C’è più lavoro ora di prima, ma siamo pronti per costruire un futuro sostenibile», spiega Christillin.
Greco, che presiede la commissione internazionale che decreterà i nuovi direttori di 13 musei italiani, ha partecipato alla task force Colao, scrivendo da solo la slide 56 del progetto, quella dedicata al rilancio dei musei italiani.
«Serve una progettualità che si basi su tre punti. Primo, la cura del patrimonio. Abbiamo della spese che non possiamo comprimere. La nostra collezione ha in media 3,500 anni di vita. Non possiamo mica interrompere il restauro delle mummie animali. Un problema che ha per esempio anche il Parco Archeologico di Pompei».
Il secondo punto è salvaguardare la ricerca. Per questo Christillin e Greco hanno proposto di usare per i Beni culturali il Fondo di finanziamento ordinario che usano le università: «Bisogna rovesciare la prospettiva: la ricerca non deve essere più il “passivo” dei musei, ma un investimento per il futuro. Tutte le statistiche internazionali dicono che un euro per la ricerca ne porta due di investimento», spiega Greco.
Il terzo punto fondamentale per ripartire secondo Greco è la comunicazione digitale «La partecipazione museale è molto bassa. Secondo l’Ocse solo il 26% degli italiani visita un museo almeno una volta all’anno. La fascia 18-45enni non ci va. Dobbiamo fare ricerca con antropologi, sociologi e filosofi per capire come attirare vecchie e nuove generazioni per far conoscere l’immenso patrimonio artistico che abbiamo nel nostro Paese».