«Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo», passata alla storia come una frase di Voltaire e poi attribuita alla scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, è una di quelle espressioni somministrate per forza a quelle generazioni che, come la mia, sono cresciute viziate dall’ideologia.
Proprio per uscire da questa logica, dell’uno contro l’altro armati, si faceva largo l’idea che fosse da difendere il libero pensiero a ogni costo, soprattutto di chi non la pensava come te. Pensiero libero contro pensiero unico.
Questa frase, peraltro, non mi è mai piaciuta. L’ho sempre trovata insulsa, una massima di scarso valore e significato, adatta a mantenere i toni fin troppo moderati, dove invece mi accendevano il paradosso, l’iperbole, l’esagerazione, la scorrettezza, ingredienti se non obbligatori almeno auspicabili in un’opera d’arte. Che infatti non è mai realtà, ma qualcos’altro.
Da ragazzo, negli anni Settanta, combattevo per principio contro chiunque mettesse a rischio la mia libertà d’espressione.
Allora le restrizioni arrivavano dagli ambienti più conservatori, bacchettoni e benpensanti, intrisi di morale borghese, di valori cattolici, mentre noi “rivoluzionari”, di destra o di sinistra, giocavamo con le parole, l’assurdo, il non senso e chiunque ci dicesse di smetterla era uno squallido censore. Non esisteva allora il termine “politicamente scorretto” e qualsiasi cosa fosse scorretta ci piaceva eccome.
Potrei quasi dire che mi sono avvicinato, ho studiato, insegnato e analizzato criticamente le arti, dalla pittura alla musica, dalla letteratura al cinema, perché sentivo che lì la mia libertà fosse assolutamente tutelata e non minacciata dalla realtà.
È che spesso non siamo così facili profeti. Come non avrei mai saputo prevedere che un virus riuscisse a mettere in ginocchio il mondo nel 2020, altrettanto non avrei pensato che la storia dell’arte, passata e presente, potesse essere censurata nel terzo millennio, complice il cosiddetto “libero pensiero dei social network”.
Gauguin,Balthus, Waterhouse e Schiele sono alcuni tra gli esempi più clamorosi di pittori che oggi, a distanza di un secolo, poco meno poco più, vengono vivisezionati dal punto di vista etico-moralista, quando l’arte e la cultura dovrebbero rispondere sempre e soltanto al giudizio estetico.
Né immaginare che la prestigiosa Università americana di Yale avrebbe voluto cancellare il corso di Storia dell’arte del Rinascimento perché unicamente basato sul punto di vista occidentale che non tiene conto della cultura degli altri popoli. Fatti di cui si è parlato molto nell’escalation del politicamente corretto, che ormai non risparmia nessuno.
Non risparmia neppure i grandi autori di cinema, neanche due ultraottantenni come Roman Polanski, premiato tra le contestazioni a Venezia nel 2019 e al più recente Cesar, o Woody Allen, la cui pubblicazione dell’autobiografia “Apropos of Nothing” è stata rifiutata da Hachette (ma non da Elisabetta Sgarbi, editrice de La Nave di Teseo, che l’ha pubblicata nel maggio scorso).
Su Polanski pesa la grave accusa di stupro perpetrata ai danni di una minorenne nel 1977, una vecchia e brutta storia che nulla toglie alla genialità del regista; in quanto ad Allen, è la figlia Dylan Farrow a scagliarsi sui social contro un padre indubbiamente difficile di cui peraltro si sa già tutto.
Ma allora si giudica l’opera o l’uomo? Discorso analogo vale per il mondo della musica rock, nata ribelle e oggi dominata da conformismo e buoni sentimenti. Morrissey, già leader degli Smiths, è tra le pochissime star a dichiararsi conservatore, favorevole alla Brexit e supporto di For Britain, il movimento accusato di razzismo.
Questo non è piaciuto ai fan, che hanno strappato i suoi manifesti e distrutto i dischi. Morrissey si è appellato al rispetto della diversità di opinioni e alla libertà di parola e invece la censura si è abbattuta anche su quello che è sempre stato considerato un territorio franco.
Il rischio della degenerazione di questo atteggiamento censorio, che passa dalla melassa del politicamente corretto all’instaurarsi di un paesaggio orwelliano, avamposto della dittatura, si è manifestato a lungo durante il diffondersi della pandemia da coronavirus.
Guai a manifestare dubbi, dissensi, incertezze rispetto alle decisioni della politica, supportati da virologi ed esperti. Durante il lockdown, insieme alle persone, sono rimaste chiuse in casa le loro coscienze.
Consigliando la lettura di 1984, Nicola Porro su “Il Giornale” prospetta uno scenario forse inquietante, ma non improbabile: «Stiamo sagerando? Forse. Ma a scanso di equivoci, in questa quarantena, dategli una lettura. All’epoca c’era lo stalinismo, oggi la tirannia ha un’altra più garbata forma, ma il risultato non cambia».
Più sicurezza e meno libertà è un refrain che anticipa le dittature. Poche voci dissonanti si sono alzate davanti al buonismo mediocre dell’hashtag #iorestoacasa: Enrico Del Buono su “Rolling Stone” – «la rivelazione più terribile di questa epidemia è il bisogno diffuso, finalmente demistificato, di inchinarsi al primo grande inquisitore che passa»; Filippo Facci su “Libero” – «non mi farò mettere app sul telefono che equivalgono al braccialetto dei carcerati o alla dittatura cinese, non mi farò spiare da un drone, anzi, se ne vedrò uno lo abbatterò con la fionda»; Camillo Langone ancora su “Il Giornale” – «ma restateci voi a casa, amebe che non siete altro: non esistono più giovani ribelli, fieri vegliardi, artisti maledetti o, più semplicemente, intellettuali dissidenti?».
Lasciando la cronaca e tornando alla questione del politicamente corretto, nel 1993, il grande Robert Hughes pubblicava la sua reprimenda intitolata “La cultura del piagnisteo”, si riferiva a questioni del proprio tempo. Nessuno, neppure il più oltranzista tra i censori, si sarebbe sognato di portare indietro di secoli l’orologio dell’arte; oggi c’è chi lo fa, applicando letture moralistiche a opere nate sotto ben altre stelle.
Tra tutti, il caso Yale è il più clamoroso e assurdo perché all’epoca del Rinascimento italiano l’arte era quella, solo quella e nulla più.
Può darsi che da qualche parte del nostro pianeta, prima della scoperta dell’America, forse nel Centro Africa o nel Sud Est asiatico, ci fossero abilissimi artigiani capaci di intagliare legno, assemblare materiali, ma privi di qualsiasi aspirazione all’autorialità perché proprio non la conoscevano.
La firma, nell’arte, è da sempre sinonimo di garanzia e ci sarà dunque un motivo se Giotto vale di più di un anonimo maestro di bottega.
Una data segna il cambiamento, ed è il 1989, con la mostra “Magiciens de la Terre” che a Parigi espone per la prima volta in un grande museo i prodotti artistici extra-occidentali. Inutile arrampicarsi sui vetri, prima di allora l’arte era soltanto europea, l’America si riconosce solo dal Novecento pieno, il resto non conta, non esiste.
Discorsi che non piacciono alla maggior parte degli osservatori contemporanei, invaghiti dal senso di colpa contro la “nostra” mentalità colonialista. Non potendo portare a suffragio delle loro teorie qualche esempio calzante, si dedicano alla nobile arte della censura retroattiva, con accuse di maschilismo, sessismo, comportamenti devianti.
L’assurdo sta proprio qua. Nel terzo millennio i maggiori censori arrivano dagli ambienti accreditati come i più progressisti.
Accademici, direttori di museo, intellettuali di oggi non hanno nulla a che fare con il background culturale dei loro genitori, che negli anni Sessanta e Settanta lottavano per la libertà sessuale e di pensiero, sognando una società libera da ogni costrizione. Un cavallo di battaglia della sinistra, una tra le tante promesse mai mantenute.
Tra le occupazioni più recenti dei moralisti loro eredi c’è chi scandaglia, aiutandosi col web e rilanciando le proprie opinioni in questa terra di nessuno, i manuali di arte alla ricerca di immagini perverse, sottolinea i romanzi dove compare la parola negro, ebreo o altri lemmi di discriminazione sessuale. Se la prende con la volgarità dei rapper e viviseziona qualsiasi canzonetta, anche la più stupida: credete forse che Vasco Rossi oggi potrebbe ancora gridare, in Colpa di Alfredo, «è andata a casa con il negro la troia»?
Impensabile anche per lui. Gli ultimi a difendere la libertà d’espressione e di immagine sono rimasti i conservatori, i liberali, che forse in un altro tempo si sarebbero indignati e oggi, chiamati in causa, si sentono di fermare la corsa alla censura.
Perché questa è una folle corsa che limita la libertà di tutti, di chi fa arte e di chi la guarda, di chi la espone e di chi la ama.
E pensare che nella storia dell’uomo arte è sinonimo di libertà, o almeno lo è stato a lungo. Non oggi, perché alcuni modi di fare arte o di essere stati artisti non sarebbero più legittimi nel nostro mondo. Oggi leggiamo l’opera come un insieme di qualità estetiche, stilistiche ed etiche, con una netta prevalenza di quest’ultima. Ed è sbagliato.
Se l’arte si giudica dalla cronaca, eccoci davanti alle nuove forme di “pornografia del dolore” che invadono le biennali, le fiere, le mostre indipendenti e i musei progressisti. Eppure nessuno mai si sognerebbe di additare il cinismo di chi si serve delle tragedie a scopi commerciali e autopromozionali.
Cercasi migranti, sciagure, femminicidi, guerre, disastri ambientali. Tutto è addomesticato, tutto è uguale, perfettamente corretto. La minoranza è in e la maggioranza out. L’omosessualità in e l’eterosessualità out. Il cristianesimo out e le altre religioni in. L’occidente out e il terzomondismo in.
Un editore di estrema destra va espulso dal Salone del libro di Torino e il criminale Cesare Battisti può essere pubblicato da Einaudi (fuori catalogo, fortunatamente).
L’elenco può continuare all’infinito, funziona solo ciò che è perfettamente corretto, «nessuno si senta offeso» come cantava Francesco De Gregori. E intanto la libertà dell’arte va a farsi fottere, se si può ancora dire.
da “Arte è libertà? Censura e censori al tempo del web”, di Luca Beatrice, Giubilei Regnani Editore, 2020, 15 euro