Analisi della vittoriaLe tre lezioni che l’Italia può imparare dal trionfo dei Verdi alle municipali francesi

Il partito ecologista conferma il suo radicamento sul territorio e il suo trend di crescita: i risultati di Marsiglia, Lione, Bordeaux e tante altre città hanno dimostrato che i loro principi hanno fatto breccia tra i cittadini transalpini

MEHDI FEDOUACH / AFP

Per capire l’onda verde che ha confermato la sua forza in Francia dopo avere rappresentato la sorpresa delle europee l’anno scorso (oltre 13%), bisogna innanzitutto guardare ai vincitori e alle vincitrici di queste elezioni municipali cosi inabituali: giovani e meno giovani, uomini e molte donne, non di primissimo piano, ma estremamente presenti e conosciuti nelle loro città e nei loro rispettivi ambiti professionali e associativi; quasi tutti e tutte militanti di lunga data dei Verdi, appartenenza spesso combinata senza grossi problemi con impegno in ruoli di leadership nella società civile e dotati della credibilità necessaria per aggregare movimenti cittadini, partiti e gruppi della sinistra nell’impresa di una coalizione di governo moderna e non di anti sistema marginali.

Così la nuova sindaca di Marsiglia, Michele Rubirola, di famiglia italiana e spagnola, ha creato la sorpresa con “Primavera marsigliese” in una città da decenni feudo della destra più retriva, ed è una dottoressa impegnata nelle zone marginali della città. Appartiene ai Verdi da anni ed è uscita a sorpresa come candidata di tutto il fronte progressista quando il candidato designato ha capito che non ce l’avrebbe fatta. È quella che rischia ancora peraltro. In virtù di una norma speciale che interessa Parigi, Lione e Marsiglia: le elezioni del sindaco non sono dirette e dipendono dalle maggioranze al consiglio comunale a sua volta determinato dalle circoscrizioni.

I conteggi sugli eletti dicono che se la destra e Rassemblement national fanno un accordo non avrà la maggioranza. Vedremo alla fine della settimana.

E poi ci sono il nuovo sindaco di Lione, Gregory Doucet, e il suo alter ego alla “Metropole” Bruno Bernard, che hanno fatto cadere il lungo regno di Gerard Collomb, ex-socialista alleato della prima ora di Macron e che pur di fermare l’onda verde aveva fatto un’alleanza scandalosa con la destra: le loro liste hanno ottenuto maggioranze ampie che permetteranno di governare verso una città 100 per cento ciclabile e “marchable”, una economia verde che non è nemica di industria e produttività e con minori diseguaglianze.

Gregory Doucet è segretario dei Verdi a Lione dal 2017, ma è anche responsabile per l’Africa dell’Ovest per Handicap internazionale. Bruno Bernard è figlio di un importante politico socialista lionese, è nei Verdi dal 2002 ed eletto a livello locale dal 2008 e ha un profilo di imprenditore capace di parlare al mondo economico.

Poi c’è la sorpresa della nuova sindaca di Strasburgo, città difficile e sui generis, spesso in mano alla destra dura o ai socialisti, anzi socialiste, perché da quelle parti il sindaco è donna da molto tempo. Jeanne Barseghian, una giurista ambientale poco conosciuta, militante dei Verdi da 20 anni, ha vinto nonostante il Partito socialista, guidato da Catherine Trautmann, ex sindaco, ex ministro e politica di lunghissimo corso, non abbia voluto la fusione con i Verdi. E soprattutto nonostante l’accordo tra i macronisti e la destra repubblicana.

Risultato veramente sorprendente e positivo per una candidata che all’inizio era la meno conosciuta dei cinque in lizza e che ha fatto una campagna veramente “porta a porta” con parole semplici e, come si dice in Francia, «portatrici di futuro e di cambio» contro l’immobilismo degli altri.

Poi c’è Bordeaux, altro feudo che si pensava inespugnabile, una specie di Bologna al contrario, governata dalla destra – spesso una destra gentile come quella di Alain Juppe – dal lontano 1947.

Anche qui i macronisti si sono alleati con la destra che era arrivata in testa al primo turno con Nicolas Florian sindaco uscente. Pierre Hurmic, avvocato è uno dei veterani tra gli eletti locali dei Verdi; è stato candidato più volte dal lontano 1995 con lo slogan “Bordeaux grandeur nature”.

A Poitiers è la trentenne Leonore Mondocond’huy, eletta alla regione dal 2015, che vince, dopo 43 anni di governo dei socialisti e con il sostegno di una coalizione tutta a sinistra e senza i socialisti.

A Besançon vince Anne Vignot, assessora all’ambiente uscente e prima sindaco donna da quelle parti, con il sostegno stavolta anche dei socialisti. Anche lei, come Hurmic e Rubirola, ha superato i 60 anni ed è arrivata tardi alla politica.

Geografa, ricercatrice, direttrice prima dell’Istituto per la conservazione degli spazi naturali e poi del giardino botanico di Besançon ed è eletta una decina di anni fa per la prima volta. Non molti la davano vincente quando ha annunciato ormai due anni fa di volere candidarsi al municipio, ma voilà alla fine aveva ragione lei.

Anche se a Parigi è Anne Hidalgo, socialista, che vince, tutti sanno che le sue politiche più marcanti sono quelle ecologiste e tra i suoi più forti sostegni ci sono i Verdi e in particolare David Belliard, non a caso citato esplicitamente dalla sindaca rieletta nel suo discorso della vittoria. È così per quasi tutti i casi nei quali i socialisti o la sinistra hanno vinto, come a Montpellier, Rennes, Nantes o con la notevole eccezione di Lille, dove ha vinto per un soffio Martine Aubry, figlia di Jacques Delors e da sempre pezzo grosso del Partito socialista.

Tre le lezioni per l’Italia da questa vittoria. La prima: per far vincere la politica verde ci vogliono i Verdi in grado di lavorare come matti alla costruzione di un partito solido, ma aperto, plurale e accogliente, credibile, incurante degli attacchi e capaci di sostenere conflitti durissimi e scissioni.

I Verdi francesi di oggi sono reduci da anni di gavetta, di una costruzione passo passo di competenze e leadership locali e regionali ottenute con militanti, battaglie di campo, poche scorciatoie leaderistiche, capacità di lavoro di gruppo nonostante la partenza di alcune figure rilevanti verso Macron o verso la sinistra.

Per loro, anche a causa di una estrema litigiosità a livello nazionale, per anni niente media favorevoli e risultati deludentissimi nonostante gli exploit alle europee del 2009 con Dany Cohn-Bendit. Un lavoro certosino e meritorio, che ha convinto anche Melenchon, un politico non noto per la sua modestia, a riconoscerne il primato culturale e organizzativo, e una parte molto importante del settore associativo a dare loro fiducia ben al di là dei temi “verdi”.

In Italia, su questo siamo indietro. I Verdi esistono, ma non riescono ad attirare né le forze sociali né quelle politiche vicine, un po’ per problemi loro di chiusura e immagine, un po’ perché da noi la “società civile” schiva, anzi “schifa” la politica e soprattutto sceglie raramente il verde perché non lo ritiene in grado di vincere. E un po’ anche perché i partiti di sinistra, anche loro per lo più autoreferenziali e spesso molto maschili e vecchia maniera, pensano che in fondo non servono i Verdi per fare politiche ambientaliste, bastano loro.

Secondo: i francesi a tutti i livelli hanno capito meglio degli italiani e come i tedeschi, i belgi o gli olandesi, che l’ecologia è una ricetta politica, economica, sociale di vera trasformazione in positivo e quindi di consenso.

Da noi, siamo in larga parte a livello di chiacchiere nonostante la Green economy italiana sia più forte in ogni settore rispetto alla Francia. Qui i politici e i media non sanno di cosa parlano davvero quando si cita il Green Deal e abboccano a tutte le operazioni di green-washing possibili e immaginabili.

Tanto è vero che autostrade e appalti senza regole, marce indietro repentine su modeste tassazioni ambientali, aiuti ad auto inquinanti, ponti d’oro al gas e bastoni fra le ruote alle rinnovabili, convivono tranquillamente con misure come i soldi a pioggia alle bici o alle ristrutturazioni edilizie (ma con il tentativo di svuotarne il significato verde) la contrarietà agli Ogm e ai pesticidi e i voti pro-clima in Europa.

Terzo: come in ogni democrazia matura bisogna conoscere per deliberare tanto più su temi complicati come il disastro economico dopo la pandemia o lo sregolamento climatico che non si governano con gli slogans.

E se in Francia comunque conta sapere quello che si dice, in Italia lo spazio del dibattito pubblico è scarso, la ossessiva concentrazione di media e talk show su leader di scarsa qualità che parlano impunemente di “pannelli al metano”, il discredito di competenze, dialogo e politica, l’uno-vale-uno che ha messo in posti di estrema importanza gente che letteralmente passava di li, rende la costruzione di una alternativa larga ecologista, femminista, aperta ed europea estremamente difficile. Non impossibile, certo, auspicabile e meritoria di impegno e slancio, ma neppure davvero imminente.

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