La prossima mossa sul destino dell’ex Ilva ora spetta ad ArcelorMittal. Il governo alza il tiro contro il piano dei franco-indiani da cinquemila esuberi, definendolo «inaccettabile, inadeguato, insoddisfacente e irrealizzabile». E nell’incontro con i sindacati annuncia la convocazione dell’azienda per la prossima settimana. Sarà in quell’occasione che i Mittal dovranno dire se vogliono restare, tornando alla bozza di piano sottoscritta il 4 marzo, o fare definitivamente le valigie dall’Italia pagando la penale da 500 milioni prevista nell’accordo.
Nel secondo caso, servirà mettere in piedi in fretta un piano B. Che il governo non sembra avere ancora ben chiaro. Diviso tra le mire di nazionalizzazione e la voglia di addio ai Mittal del Mise di Stefano Patuanelli, e la tattica del Tesoro di Roberto Gualtieri, che punta a tenere attaccati i franco-indiani all’accordo del 4 marzo, confidando nel piano europeo per la siderurgia sostenibile.
«Ma voi cosa intendete fare?». «Esiste un progetto alternativo a Mittal?», hanno chiesto più volte i sindacati nel corso della riunione con i ministri Roberto Gualtieri, Stefano Patuanelli e Nunzia Catalfo. La risposta non è arrivata. Mentre fuori dagli stabilimenti di Taranto, Genova e Novi Ligure proseguiva lo sciopero generale dei lavoratori.
La linea dei tre ministri è unica solo su un punto: il piano presentato il 5 giugno va respinto e ArcelorMittal deve rispettare l’accordo di marzo siglato al tribunale di Milano con gli impegni presi sui livelli di produzione e occupazione e sugli investimenti ambientali. «Su quale progetto anche alternativo di ingresso dello Stato, con quante e quali risorse», però, non arriva «nessuna risposta», dice Francesca Re David, segretaria della Fiom.
«Nella ricostruzione del ministro Patuanelli si insiste a ritenere la rimozione dello scudo penale come pretesto per restituire gli impianti», commenta Marco Bentivogli della Fim. «La realtà ha evidenziato che con l’introduzione dell’emendamento, con cui si è cancellato lo scudo penale, è iniziato il disimpegno. L’azienda pagava 1,8 miliardi per acquisire Ilva e ora metterà 500 milioni per una partecipazione di minoranza, magari con il prestito previsto dal dl liquidità. E tutto il resto lo metteranno i contribuenti. Un capolavoro».
Finito l’incontro, Fiom, Fim e Uilm si dicono «insoddisfatti». Mentre fuori dagli stabilimenti, tra i lavoratori in cassa integrazione a 800 euro, cresce la rabbia e qualche bandiera dei sindacati viene strappata.
Ma la risposta che il governo aspetta ora è quella di Mittal. Il piano presentato dall’azienda il 5 giugno, con la produzione dimezzata, i 5mila esuberi e gli investimenti ambientali rinviati al 2025, è molto simile a quello proposto prima del 4 marzo, che il governo aveva già rigettato.
Con l’aggiunta, stavolta, della richiesta di finanziamenti e risorse allo Stato per circa 2 miliardi. E non è sfuggito né all’esecutivo, né ai sindacati, tantomeno ai lavoratori, che la tattica di presentare un “piano vecchio” potrebbe essere solo una mossa per farsi dire di no e avere così un alibi per andare via.
Con il pretesto della crisi post-Covid, a oggi sul tavolo non solo non è rimasto più nulla dell’accordo del settembre 2018 – l’unico riconosciuto dai sindacati – ma nemmeno dell’intesa firmata in tribunale il 4 marzo scorso, che escluse le parti sociali stabilendo la pace dopo il balletto sullo scudo legale, lasciando però un buco nero sugli esuberi. Certo, come ha sottolineato Gualtieri nell’incontro, non si possono ignorare i danni prodotti dal Covid ma nemmeno il virus può essere usato come pretesto per presentare un piano contrario.
L’accordo di marzo era in realtà una bozza da definire poi entro novembre, che prevedeva la costituzione di una newco con l’ingresso dello Stato tramite Invitalia e concedeva ad Arcelor di uscire prima con una penale da 500 milioni di euro. A questo punto, quindi, lo Stato dovrebbe entrare in Ilva con una quota del 49% tramite Invitalia e con un nuovo asset societario che prevede anche la trasformazione dei crediti già erogati in equity. Sempre che la restante quota rimanga in mano di ArcelorMittal.
«Il piano industriale per noi resta quello del 4 marzo», conferma una fonte del Tesoro. «Noi co-investiamo se il piano è quello lì. Non paghiamo solo il conto». Lo stesso Gualtieri ha dettato le condizioni dopo l’incontro con i sindacati: «Il governo continua a lavorare al progetto strategico che attinga alle risorse del Green Deal europeo. Disponibili a intervento pubblico a condizione di un rilancio rapido, investimenti certi e tutela dell’occupazione». Il piano del 5 giugno è rispedito al mittente.
E se non ci stanno e vanno via? «Se vogliono andare via devono pagare la penale da 500 milioni», precisano dal Tesoro. Non sarà un passaggio semplice, bisognerà andare in tribunale. Ma a quel punto la palla passerà tutta nelle mani del governo, che dovrà mettersi alla ricerca di un nuovo partner industriale che voglia investire nell’acciaio nel bel mezzo di una crisi globale. «Dovremo trovare un altro che entra. Se poi non c’è nessuno, entreremo noi con i creditori»: sono le due strade che il governo ha davanti. E i creditori rispondono al nome di Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Cassa depositi e prestiti e il Tesoro. Che già a gennaio erano stati contattati dal governo per sondare la disponibilità a trasformare i crediti in investimenti per il rilancio degli stabilimenti.
Ma era il mondo prima del Covid. Per la definizione del piano pubblico-privato per settimane si era riunito un tavolo tra i commissari, gli affittuari degli stabilimenti e Invitalia. Proprio mentre i Cinque Stelle, che prima volevano chiudere l’Ilva, invitavano i Mittal all’uscita dichiarando di preferire Cassa depositi e prestiti. L’ingresso dello Stato è «quasi inevitabile», ha ripetuto Patuanelli. Al momento però non c’è nessun progetto concreto.
Alla nazionalizzazione crede poco anche Gualtieri, che punta invece alla riconversione verde del polo siderurgico, nel quadro non solo del Green New Deal europeo (ma i soldi dovrebbero arriverebbero entro il 2022 e sarebbe troppo tardi) ma anche dei finanziamenti che arriveranno con il Recovery Fund anti-Covid. Con Mittal o senza, la svolta, secondo il Tesoro, sta proprio qui: a fronte di un piano di riforme con investimenti nell’alta velocità, nell’edilizia e nell’auto elettrica, l’acciaio (pulito) servirà. La domanda sarà quindi sostenuta dal mercato interno, è il ragionamento.
Ma Mittal la prossima settimana potrebbe anche dire «paghiamo la penale prevista nell’accordo e ce ne andiamo». A quel punto servirà un partner alternativo. E in fretta. Al momento all’orizzonte non si vede nessuno.