I falsi nemiciWinston Churchill non è Colston: perché la guerra sulle statue fa danni e non risolve niente

Lo scontro sui simboli e sui loro significati ha colpito anche il generale inglese, eroe della Seconda Guerra Mondiale. Se non si capisce che un monumento non vuole celebrare il razzismo ma la vittoria contro i nazisti la società ha un problema

A Bristol il nome di Edward Colston è dappertutto. Ci sono vie, scuole, istituzioni e musei dedicati a questa figura del XVII secolo. Soprattutto, c’è (c’era) una statua in bronzo. Per la città fece molte cose: creò scuole per i più indigenti, sostenne istituti caritatevoli e ricoveri. La rappresentò anche in Parlamento.

Quando morì il suo funerale era affollato, con tante delle persone indigenti, che aveva aiutato. Una storia positiva, dal sapore dickensiano, di carità e dedizione. Ma con un grande problema: la maggior parte dei proventi di Colston derivava dal traffico di schiavi (e dall’avorio).

Per questo motivo da tempo in città si discuteva di ridimensionare la sua figura, eliminando commemorazioni e precisando alcuni dettagli, quelli più scabrosi, della sua biografia.

In particolare si litigava sulla statua: posizionata nel centro della città nel 1895 (più di 150 anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1721), diventa bersaglio delle polemiche fin dagli anni ’90, con una serie di petizioni per rimuoverla andate a vuoto.

Nel 2018 la musica cambia: arriva la prima richiesta ufficiale, da parte di un parlamentare, di toglierla. Subito dopo appare – e viene tolta – un’installazione artistica non autorizzata, con figure di persone sdraiate a rappresentare gli schiavi venduti. E infine arriva la placca commemorativa (e correttiva), su cui però, sia sul merito che sulla formulazione, si crea un putiferio.

Alla fine, nel mezzo delle proteste del 6 giugno 2020, in seguito alla morte di George Floyd a Minneapolis, la statua viene abbattuta, fatta rotolare fino al fiume e buttata in acqua.

Un’azione «profondamente vergognosa», ha commentato il ministro dell’Interno inglese Priti Patel.

Ma non l’unica. Nelle stesse ore veniva imbrattata anche quella di Winston Churchill collocata di fronte al Parlamento di Londra, con la scritta «Era un razzista». Anche questo ha sollevato diverse discussioni, su cui si tornerà.

La lotta contro le statue, intese come simbolo di un passato (e un presente) di oppressione e razzismo, non è una novità. Negli Stati Uniti le polemiche si sono concentrate intorno ai monumenti confederati, con cui vengono celebrati gli eroi e le figure dei capi sudisti, cioè la parte rimasta sconfitta dalla Guerra Civile, che promuoveva una società e un’economia basata sulla schiavitù.

Per chi le contesta sono un inno alla «superiorità bianca». Per chi le difende si tratta di un documento storico, segno del passato privo ormai di significato politico.

Ma negli ultimi giorni la questione ha visto un’accelerazione: sotto la pressione delle manifestazioni sorte in tutta America (e anche in Europa), si è deciso di rimuovere il monumento al generale Lee a Richmond, in Virginia, uno dei personaggi più rappresentativi e controversi di quel periodo.

È una guerra di simboli, per niente indolore. Il senso è riassunto in modo efficace e involontario proprio sulla targa che fu posta sotto la statua di Lee dal sindaco della città nel 1890: «“Un popolo scolpisce la propria immagine nei monumenti dei grandi uomini». La questione è tutta qui: occorre stabilire quale sia il “popolo”, di chi sia “l’immagine” e quali siano questi “grandi uomini” – senza dimenticare le donne.

Come notava già nel 2002 il giornalista e scrittore inglese di origine caraibica Gary Younge, è il problema delle statue. «Per essere efficaci devono essere fatte per durare», e perché ciò avvenga, «devono essere pubbliche, cioè accettate dalla maggioranza, se non da tutta la popolazione».

Non solo. In quanto simbolo, sono chiamate a condensare più significati in una sola figura, il cui obiettivo è generare consenso intorno a un nucleo di idee. Resta il punto: quali idee rappresentano i generali confederati? E quali Churchill? Non certo le stesse.

Il problema è quindi di popolo – che è diviso – di immagine da scegliere – su cui non c’è accordo – e su chi quali siano le idee e i personaggi da monumentalizzare.

È vero che Winston Churchill era razzista, (non ne fece mai mistero, del resto), è vero che credeva nella superiorità degli anglosassoni, ed è anche vero che alcuni suoi comportamenti durante la guerra furono spregiudicati, al limite e oltre della ferocia.

Ma è anche vero che una statua è un simbolo – e anche una metonimia – e lui rimane sempre quello che ha guidato la Gran Bretagna contro il nazismo (erano razzisti anche quelli, pare), che ha sostenuto il Paese durante una resistenza sotto le bombe e lo ha portato a vincere. Era anche un appassionato fumatore di sigari, ma nessuno ha mai pensato di abbattere le sue statue perché il tabacco fa male.

In questo senso, minimizzare le sue idee razziste è sbagliato. Ma il suo monumento, che non è un trattato storico, condensa un altro messaggio. Come uomo, è stato grande in alcune cose e piccolo in altre. La statua vuole parlare solo delle prime, quelle in cui si riconosce – si spera – la società.

(Piccola nota: non sarebbe tanto diverso quello che accadrebbe per un monumento di Albert Einstein, grande fisico ma anche impenitente womanizer. Qualcuno ne sarebbe offeso)

Allora, se c’è una battaglia intorno ai simboli è perché c’è uno scontro sulla memoria condivisa, che comprende tra le varie cose, la rimozione (molto europea) del passato coloniale.

Non si tratta di una disputa tra storici, ma una frattura che riguarda il presente e racconta più che altro le disuguaglianze nella società e la sperequazione del potere. È su questo che si deve riflettere, lavorare e impegnare la politica. Perché a Edward Colston, che è morto nel 1721, importa poco che la sua statua adesso riposi in fondo all’Avon.