Tutti l’hanno vista, almeno una volta. Sotto forma di statua, forse. O stampata sui francobolli. Si trova spesso nelle vecchie cartoline (soprattutto di inizio secolo), nelle vignette di satira, in qualche poster, nei manifesti celebrativi.
È l’immagine dell’Italia rappresentata come una donna. Forma allegorica, iconica, simbolica. A volte con un tricolore in mano (così non si sbaglia), quasi sempre con una corona turrita in testa. E perché no, una cornucopia, a indicare abbondanza e fertilità.
Ma perché è così? Perché si è imposta questa simbologia? «Non ci si fa più neanche caso, tanto è comune. Passa inosservata», spiega a Linkiesta Giovanni Belardelli, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università degli Studi di Perugia e curatore di un interessante libro pubblicato da Marsilio: “L’Italia immaginata. Iconografia di una nazione”.
Dall’età moderna in poi, si spiega nei diversi interventi raccolti, la raffigurazione dell’Italia comincia ad assumere una fisiologia sempre più precisa. Diventa una figura femminile, con alcuni specifici attributi, che con i secoli diventeranno sempre più caratteristici.
Come spiega il professore, nulla è casuale. Anzi: ogni dettaglio affonda le radici in una tradizione antica, a volte antichissima – se si pensa che si arriva alle civiltà orientali pre-classiche, si ha un’idea della distanza temporale.
Erano femminili le divinità che proteggevano le città greche, per esempio. Ma era una donna anche la rappresentazione della città nella Bibbia, nelle popolazioni del Vicino Oriente antico. «Un’associazione dovuta alla capacità della città di generare, di essere fertile, nutriente», estendendo così «la metafora del benessere familiare».
Questo aspetto si è mantenuto nel tempo. Si ritrova nelle immagini, in alcune spie del linguaggio, «come “madrepatria”», per esempio, che a loro volta generano ulteriori evoluzioni. La fratellanza dei cittadini, figli della stessa madre-città, o della stessa madre-nazione.
Un concetto che vale per l’Italia, certo. Ma anche per le altre nazioni: Svizzera, Germania, Inghilterra e Francia sono tutte donne. «Con l’affermarsi degli Stati nazione questa allegoria è diventata dominante».
All’inizio era la personificazione della “moglie del re”, segno che il sovrano prendeva in sposa la nazione e si preoccupava di gestirne la dote non come sua proprietà, ma come bene in affido.
Con il tempo l’immagine si è sviluppata ed è diventata preponderante. «In Francia il caso della “Marianne” è più unico che raro. Al tempo stesso la medesima figura femminile viene a significare la libertà e la Repubblica e solo dopo anche la Francia».
Un ritardo curioso: essendo un’immagine di derivazione post-rivoluzionaria, non poteva essere chiamata a rappresentare uno Stato che, fino a poco prima, era una monarchia assoluta. Serviva tempo, insomma, per assimilare anche la Francia dei secoli precedenti.
Non è un caso allora che l’icona della Marianne sia ancora così viva in Francia. Non solo conosciuta, ma diffusa e soprattutto rinnovata, tanto che per rappresentarla si fa riferimento ad alcune donne reali, scelte come modello. «È capitato a Brigitte Bardot e, in epoche più recenti, a Laetitia Casta».
In Italia no. Qui la figura femminile si è diffusa nella seconda metà dell’800 ed è esplosa durante la Prima Guerra Mondiale. «È diventata l’iconografia della nazione, raffigurata su manifesti, giornali, cartoline. Il suo vestiario è già definito: il tricolore in mano, la corona turrita – ormai un segno distintivo [e che si rifà, anche quello, all’associazione originaria tra donna e città] – e la stella in capo».
In questo senso essenziale è stato il lavoro svolto da Cesare Ripa, autore nel 1593 di una “Iconologia”, in cui elencava, a uso e consumo di artisti in cerca di rappresentazioni chiare di concetti astratti, tutti i simboli e gli attributi canonizzati. Una guida essenziale. E l’immagine di un’Italia stellata e turrita viene codificata qui, per non cambiare più.
«Con le guerre, come è ovvio, si arricchisce piuttosto l’arsenale». L’Italia indossa un corpetto di metallo, ha un elmo in testa e una spada in mano.
Erano tempi duri: e se si pensa che la Germania (nota: «Si chiama proprio così, “Germania”, non Deutschland. Hanno preferito rifarsi al nome latino, ripescare la denominazione di Tacito per indicare una persistenza temporale più lunga») nasce armata fino al collo, segno di una nazione che si immagina fin da subito bellica, la corsa agli armamenti italiana avviene con un certo ritardo – ma si rimedia, e in poco tempo, con la diffusione di immagini in cui«nella sua veste di madrepatria, piange per la perdita dei suoi soldati. O in cui incita i cittadini alla difesa del territorio».
E poi? Con la Seconda Guerra Mondiale «cambia tutto. Questo genere di allegorie perde presa, anche perché si modificano in maniera permanente le iconografie e i sistemi di comunicazione. All’immagine statica si sostituisce quella in movimento».
Un genere di raffigurazione che non funziona più e che, nel giro di poco, perde vitalità, finendo ai margini – i francobolli, appunto – come residuo di una epoca.
«È singolare poi che non ci fossero libri, prima del mio, che affrontassero il tema», aggiunge. «Questo lo interpreto come un segno del rapporto problematico, vissuto ancora oggi, che hanno gli italiani con il concetto di nazione. L’identità è complessa, divisa, con linee di faglia e rottura».
A questo si aggiunge, dopo l’esperienza del fascismo, «una certa diffidenza nei confronti dei simboli legati alla nazione. Se si pensa che negli anni ’70 l’esposizione del tricolore era lasciata solo ai gruppi di destra estrema, si nota come una grande parte dell’arco politico si fosse disinteressata a questo simbolo – e di conseguenza, al concetto che evocava».