Finché si tratta di un “cambio di passo”, di “un’accelerazione”, persino di “una nuova fase”, più o meno siamo sempre lì, all’invito ad andare un pochettino più speditamente, a fare meglio di prima, un’aggiustatina, come si dice al barbiere, una raccomandazione come quella di una mamma al bimbo che va a giocare, attento a non sudare.
Ma quando si chiede “una svolta”, come ha fatto nella sua verbosa relazione Nicola Zingaretti alla Direzione del Pd – la prima online della storia -, la questione è più grossa. Una svolta è una svolta.
Perché c’è qualcosa di radicale, e forse di definitivo, nel “cambiare direzione” (questo vuol dire “svolta” secondo il vocabolario della lingua italiana), una cosa politicamente molto impegnativa fino all’estremo del passaggio storico, addirittura meritevole della lettera maiuscola per dare più enfasi: la Svolta di Salerno o almeno la Svolta della Bolognina, tutte cose che i ragazzi del Nazareno ben conoscono.
Ma quale svolta, con la minuscola, si possa chiedere a Giuseppe Conte, uomo della gestione più che della visione, che di svolta certo ne ha fatto una ma poco edificante (il cambio di alleanza da Salvini a Speranza), non è chiaro. Resta sospesa per aria la domanda su che cosa voglia realmente, il Partito democratico.
Anche perché Zingaretti non ha calato sul tavolo nessuna pistola fumante. Se l’avvocato del popolo non si smuove, che succede? Il governo non può cadere, le elezioni non sono possibili, e dunque? Che cosa farebbe il Partito democratico se dopo l’estate, o anche prima, le cose continuassero ad andare così così? Se la svolta non ci fosse? Ricordiamoci il gran precedente di Fausto Bertinotti quando intimava a Prodi: «Svolta o rottura». Almeno c’era un deterrente. Ma oggi le mani sono legate.
Il punto politico, che ha una sua intrinseca drammaticità, sta proprio in questo, nel chiedere una cosa impossibile: che Conte cambi se stesso e il suo modo di concepire la politica, che è più di abilità tattica che di slancio strategico.
Soprattutto non si vede che svolta puoi ottenere se non cominci a cambiare qualcosa del tuo modo di agire, e invece il gruppo dirigente e specie i ministri mostrano di chiudersi alle critiche – ormai solo l’unico oppositore, Matteo Orfini, ha parlato di «lockdown politico del partito» – ponendo semplicemente il tema di un’azione più efficace e non quello di un reale avanzamento del quadro politico.
A meno che non si tenga coperta una carta importante, quella di un rimpasto che potrebbe tenere Conte al suo posto imponendogli un’altra squadra e un nuovo programma. Le inquietudini di importanti personaggi, per esempio i capogruppo Marcucci e Delrio, sembrano andare in questa direzione ma non è affatto detto che il segretario, per timore che sfilando una carta tutto il castello possa cadere, sia d’accordo.
Avanti con Conte e i grillini, dice anzi il leader del Pd, a sentire il quale senza l’avvocato e Crimi si finirebbe con «l’Italietta», una frase che mostra a occhio nudo una sorta di rinuncia a immaginare non già un nuovo governo – Zingaretti lo ha realisticamente escluso – ma l’apertura di una vera e propria battaglia politica che non si limiti, come sta avvenendo, a qualche fastidio per il protagonismo di Conte e Casalino (vedi la sin qui privatistica gestione dei famosi Stati generali dell’economia).
La sensazione insomma è che il Pd, che pure dopo molti mesi ha battuto una specie di colpo, non disponga, o non voglia disporre, di armi per invertire il tran tran di un governo che è in evidente impaccio ad affrontare la “fase 4” della ricostruzione economica del Paese.
Malgrado voci preoccupate (Matteo Orfini, ma anche Gianni Cuperlo, Maurizio Martina), e con un segretario che si barcamena fra la difesa del governo e l’insoddisfazione per il medesimo governo, non si è capito cosa concretamente il Nazareno intenda per svolta. Sia pure con la lettera minuscola.