Manca al mondo da quasi 33 anni (il tempo necessario per il passaggio di un novello Cristo) eppure Andy Warhol è ancora vivo, anzi forse è il più contemporaneo degli artisti contemporanei, non fosse altro che tutti vorrebbero somigliare a lui. Nel bene e nel male, perché a ogni grande maestro succedono spesso discepoli così così.
Colpa di quella frase così ambigua: «ognuno in futuro avrà diritto ad almeno quindici minuti di celebrità». Sembra pensata apposta per l’era di internet e dei social: il 22 febbraio 1987, quando Warhol muore, il web non è ancora stato inventato, i computer sono strumenti rari, pesanti e costosi, la tv è il principale veicolo di propaganda che lui aveva capito ma sfruttato solo parzialmente. Fosse fisicamente ancora tra noi, Andy avrebbe il profilo IG più cool d’America, si divertirebbe ore e ore sui social proprio come negli anni ’70 stava al telefono e posterebbe i suoi video su Tik Tok.
Troverebbe straordinaria questa superficialità, il trionfo dell’apparenza e con malcelato orgoglio, pur nascondendosi dietro un naturale e sintetico riserbo, affermerebbe che, «sì, io questa roba l’avevo già capita decenni fa…».
Invece Warhol non c’è più e allora tocca a figli e figlioletti portarne avanti la “filosofia” adattata al terzo millennio. Oggi solo gli addetti ai lavori sostengono una visione elitaria ed esclusiva dell’arte. Se chiedi a uno studente, a un ragazzino, quali artisti contemporanei conosce, la stragrande maggioranza dirà Marina Abramovic perché ha reso pop la performance, ma soprattutto Banksy, Obey e Kaws, tre espressioni di post-warholismo che sono notissimi ma non ci sono nelle grandi collezioni, promettono arte popolare per tutti e nel contempo rivelano record d’asta anche se non si sa bene chi li ha comprati.
Hanno l’indubbia dote dell’immediatezza, sono iconici quasi quanto il loro maestro eppure si fermano lì, vietato chiedere loro di più. Sono lo specchio ideale dell’arte del nostro tempo, che pur impegnandosi non va oltre la superficialità. I giovani impazziscono per loro, noi adulti storciamo il naso, per questo che siamo vecchi.
Le loro mostre sono garanzia di successo, anche dopo il covid. Banksy ha avuto in contemporanea la retrospettiva a Palazzo Ducale di Genova al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, fino al 27 settembre. Obey, che rispetto all’identità misteriosa di Bristol è il nom de plume di Shepard Fairey, apre domani il 4 luglio ancora a Genova (fino al 1 novembre). Il primo è diventato famoso per gli interventi nello spazio pubblico, veri e propri simboli del nostro tempo, con azioni che mescolano la guerriglia urbana alla pura decorazione, la denuncia al paradosso, la critica allo sberleffo. Un Warhol post-street art che, nei tempi dell’iperesposizione mediatica, gioca sulla sottrazione di sé, lasciando ad altri il compito di scoprire chi è e che cosa ha davvero in mente di fare.
Dal punto di vista formale Obey è più tradizionale ed è diventato famoso con l’immagine non ufficiale di Obama prodotta per la campagna presidenziale del 2008, segno e colore dalla forza paragonabile alla Marilyn warholiana. Come a Banksy, anche a Obey interessa l’attualità, se è vero che l’ultimo lavoro Angel of Hope and Stenght è stato realizzato nelle settimane del Covid, raffigura un’infermiera come l’angelo del nostro tempo e il ricavato della vendita servirà a sostenere la Croce Rossa italiana.
A loro, evidentemente, non importa il rischio di produrre un’arte che rischia di non resistere ai famosi 15 minuti. È la logica del tutto e subito, che a Warhol interessava relativamente, considerando che l’80% del suo lavoro si indirizzava alla sperimentazione pura con uno sguardo sulla società molto più capillare. Ed è la logica delle popband di oggi che buttano fuori singoli a ripetizione e mai un album, trovando difficoltà a spingersi oltre.
I curatori delle mostre italiane di Banksy e Obey, Stefano Antonelli e Gianluca Marziani, sono molto bravi e hanno studiato a fondo il fenomeno, promettono quindi una lettura diversa e approfondita. Bene, saremo felici di capirci qualcosa di più. Non voglio dire che si tratti di bluff ma l’impressione è che davvero sia tutto qua. D’altra parte è difficile per i figli superare i padri sullo stesso campo d’azione, forse ci è riuscito solo Paolo Maldini ma è un altro sport.