Si comincia con una fotografia di classe. Inizio ’900, tanti bambini (tutti maschi) riuniti insieme a braccia conserte. In mezzo, in alto, ce n’è uno con uno sguardo freddo e altero. È diverso, o forse lo sembra soltanto perché è Adolf Hitler.
È l’inizio della mostra “Der junge Hitler”, dedicata agli anni giovanili del futuro dittatore nazista, fino al 1914. La si può visitare sconfinando (si trova a St. Polten, in Austria, nel museo storico della città), e si vedranno carte, fotografie, documenti.
Raccontano la crescita di un ragazzo un po’ solitario, emarginato dai compagni ma poco interessato a farsi integrare dagli amici e dai compagni di classe.
Un nerd, insomma. E ce ne erano tanti come lui, ce ne sono ancora oggi e ce ne saranno. Ma cosa lo ha trasformato in uno dei più feroci dittatori del ’900?
La mostra prova a rispondere – e in un certo senso, fornisce spunti anche per un’altra domanda, la celebre: “Se potessi tornare indietro nel tempo per uccidere Hitler da bambino, lo faresti?”. Qui ci si può fare un’idea di ciò che ci si troverebbe davanti.
L’idea è che sia un concorso di colpe. Di sicuro, a condizionare il destino è in parte il carattere: Hitler era facile alla passione, ma privo di metodo.
Si eccitava per alcuni argomenti (il Germanesimo, per esempio) ma non aveva la costanza di proseguire e migliorare. Lo stesso valeva per l’arte, l’architettura, la musica. Si infiammava ma non si applicava. Il risultato, come è noto, è una serie di fallimenti.
Di fronte all’impreparazione, sarà bocciato. Va male a scuola, non riesce a entrare alla scuola d’arte di Vienna – i suoi disegni di archietture, diranno gli esaminatori, mancavano di vita.
A un certo punto, prova a comporre anche un’opera musicale, ma non sapendo scrivere le note (già questo dà l’idea del velleitarismo e del disprezzo per le competenze), dovrà dettare i suoi gorgheggi al compagno August Kubizek (è dal suo archivio che proviene il documento in mostra, un preludio «basato sui motivi di Adolf Hitler»). Anche qui, non andrà bene.
Anche in famiglia – il padre, come è noto, lo prendeva a cinghiate per sgridarlo – non vivrà un clima sereno. Ma come a lui, è accaduto a tanti altri.
Quello che di sicuro lo influenza, oltre alle lezioni del suo professore Leopold Pötsch sulla mitologia germanica, è l’atmosfera dell’Austria dell’epoca. Un mondo dove la guerra e la violenza erano un fatto normale (e non perché la leggevano nei libri) e l’antisemitismo costituiva una posizione più che accettabile, quasi mainstream – e nessuno si stupisce che Hitler aderisse senza problemi.
Anche il nazionalismo era diffuso, così come le teorie razziste, (che lui assorbe all’istante).
Tutta la mostra è un andirivieni tra la sua evoluzione personale, fatta di tentativi estemporanei e fallimentari, e il clima culturale e politico di Vienna.
La capitale era centro di sperimentazioni artistiche (che però non lo affascinano, anzi si pone come custode della tradizione), e ribolliva anche di incontri di stampo politico. Il socialismo faceva incursioni, il cristianesimo cattolico dominava, ma Hitler comprava i biglietti per andare ai convegni sull’antisemitismo e sulle teorie dell’arianesimo.
È noto: lui non inventa nulla ma catalizza le tensioni, si appropria di alcuni concetti e riesce, da dilettante senza paura qual era, a farli diventare un miscuglio nuovo, potente e sinistro.
Il ritratto di un periodo che, se confrontato con l’oggi, risulta inquietante: di personaggi come il giovane Adolf, ambiziosi e stralunati, ce ne sono tanti. Il pericolo è altrove: nelle parole, nelle idee, nell’accettazione, quasi scherzosa e poi sempre più convinta, di principi illiberali e razzisti.
Se diffusi e normalizzate, sanno volare ovunque. E a quel punto, perché trovino qualcuno che ne faccia una sintesi, è solo questione di tempo.