Il talento di JoeBiden è il candidato perfetto per battere Trump e silenziare le sue teorie del complotto

Nessuna arma sembra efficace contro il candidato dei Democratici. È affidabile e affabile, sincero e moderato, soprattutto non è odiato. Per questo il presidente americano lo sta attaccando con tesi deliranti, evocando cospirazioni mancate guidate dal “diabolico” Obama

SPENCER PLATT / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / Getty Images via AFP

Il talento supremo di Joe Biden, come candidato, consiste nell’abilità di evitare di essere odiato.

Potrebbe non sembrare granché ma, se ci si pensa un attimo, è un tratto che lo distingue dalle figure dominanti del Partito Democratico degli ultimi decenni. Una normale quota di detrattori, rivali e oppositori lo ha sempre circondato, e questa quota normale ha sempre fatto il suo meglio per incitare il disprezzo pubblico, ha soffiato sulle braci, ha cercato di sostituirlo con un altro. Ma niente di tutto questo ha funzionato. Come lo si spiega?

Con una personalità affabile ma ben temprata, ovviamente. In più, con analisi astute, attuate con estrema disciplina e nascoste sotto un mantello di sentimentalismo stucchevole. Il talento al servizio della simpatia è, insomma, la spiegazione ultima.

È un grande risultato. Esser non-odiato, nel momento attuale, può equivalere quasi a un programma politico. Esser non-odiato è una condanna, senza pietà, verso il partito al potere. È un appello a una riforma sociale per il futuro. Esser non-odiato è anche una brillante strategia all’interno del suo stesso partito, i Democratici.

Fa impressione – dovrebbe essere ormai leggendario – che Bernie Sanders, dopo esser stato decapitato dallo stesso Biden a marzo di quest’anno, ciononostante si è premurato di esprimere la sua simpatia personale.

Chissà quanti anni di terribili fatiche ha dovuto sopportare il vice-presidente Biden per preparare il terreno a questi toni soavi da parte di Sanders. Hillary Clinton ha detto, almeno per quanto riguardava la scena di Washington, che Bernie «non piace a nessuno». Cosa che può essere anche vera. Ma Bernie, a quanto pare, sentiva che nonostante tutto Joe gli voleva bene.

In questo senso, anche le stranezze del suo stile oratorio fanno la loro parte. Stranezze che risolvono un problema ideologico.

La frattura tra le diverse parti del Partito Democratico non è modesta e ci sono pochi modi, dal punto di vista oratorio, per coprirla. Il metodo di Bill Clinton era di convincere i suoi elettori moderati che lui era un moderato, e gli elettori progressisti che lui era un progressista. Questo era una genialità di altra natura – anche se ha lasciato, dietro di sé, il sospetto che fosse solo uno scaltro inganno, cosa che ha avuto un prezzo, pagato poi dalla moglie.

Barack Obama, da parte sua, evocava un tono solenne che gli permetteva di elevarsi, in tutta maestà, al di sopra le basse dispute ideologiche. Ma la qualità regale di Obama non è ripetibile.

La tecnica oratoria più efficace di Biden è tutta un’altra cosa ancora. Sa come farsi strada nel corso di un discorso per arrivare ad argomenti di semplice moralismo patriottico. E, quando ci arriva, alza all’improvviso la voce, e la alza ancora di più, fino a quando non si trova a gridare a livelli che sembrano due o tre gradi più alti rispetto al giusto.

Somiglia, in questo senso, a Bernie. I due sono la confraternità degli “urlatori” della sinistra-del centro. Il metodo di Bernie resta più coerente, tuttativa. Comincia ad alto volume e poi, forse, aggiunge qualche altro decibel.

Ma i toni gridati di Biden non vengono dal nulla. Sembrano degli scoppi vulcanici, che tipicamente si esprimono come una asserzione di orgoglio nazionale indignato. «Questi sono gli Stati Uniti d’America!», declama (cosa che si può vedere in una delle meravigliose pubblicità del Lincoln Project).

E, poiché i decibel sottintendono i principi, il suo gridare sembra un modo di controbattere alla classica obiezione che i progressisti rivolgono ai semplici moderati, cioè l’assenza di principi.

Qui però c’è un problema. Alzare la voce mentre si fa un discorso richiede una grande sala e un vasto pubblico. Ma nelle circostanze attuali entrambe le cose sono proibite al partito che non nega la pandemia.

Biden dovrà ricorrere ad altre tecniche. Ha i suoi talenti. È stato lui che ha inventato la parola d’ordine della campagna di rielezione con Obama nel 2012, «Bin Laden è morto e General Motors è viva!» – che è diventato lo slogan politico più persuasivo in 240 anni di storia americana.

Quello attuale, cioè «Una battaglia per l’anima dell’America», non è per nulla memorabile. Non è immortale e non sarà ricordato dai libri di storia.

Tuttavia, è un bello slogan. Va al cuore della questione. Si adatta anche bene alla sua personalità pubblica, affabile, sentimentale, che resiste all’odio.

In generale la sua oratoria dovrà adottare toni più bassi, quasi da conversazione. E in gran parte dovrà essere estemporanea. Qui emergono certe fragilità.

Demostene, che era il più grande oratore della Grecia antica, aveva imparato a parlare riempiendosi la bocca con sassolini per superare la balbuzie che aveva fin da bambino. Biden sembra aver cominciato il percorso senza mai però averlo completato.

Tutti hanno notato che, quando non è a sua agio, la sua sintassi traballa e certe volte le sue frasi diventano frammentate. A volte ricorre a espressioni facili che si rivelano sbagliate. E anche quando è al suo meglio – quando grida, per capirsi – volano via sillabe solitarie: “Stati Uniti America”.

In questo senso ricorda George W. Bush. Anche se non è mai arrivato nemmeno lontanamente ai suoi disastri (Bush era riuscito a dire: «I nostri nemici sono innovativi e pieni di risorse, e così anche noi. Non smettono mai di cercare nuovi modi per danneggiare il nostro Paese e il nostro poplo, e nemmeno noi»).

Bush non è mai sembrato scosso dai suoi errori verbali, ma questo era perché è un aristocratico, nobile di nascita, e non è mai sembrato scosso da nulla in assoluto, nemmeno dai suoi fallimenti durante la guerra.

Ma come fa Biden a tenersi su di morale, di fronte ai suoi impacci? Si dice che legga poesie irlandesi, e forse questo gli dà forza.

Se potessi dirgli qualcosa nell’orecchio gli suggerirei di adottare come suo modello proprio Bush, su questo particolare aspetto. Bush è una persona con senso dell’umorismo, che scherzava per primo sulle frasi che sbagliava – una cosa affascinante. Se Biden rubasse un po’ di questa astuta autoironia potrebbe mettere a loro agio gli ascoltatori sminuendo chi lo prende in giro.

Gli inciampi verbali di Biden hanno un effetto inaspettato, però: quello di ridirezionare l’attenzione dalle parole all’uomo.

Ti ritrovi a pensare alla storia della sua vita: cosa che lui, nella sua maniera disciplinata, non cessa di incoraggiare a fare. Contempli i suoi successi politici. Forse ti trovi a pensare che l’Obamacare ha il vantaggio, rispetto a Medicare for All, di essere stato fatto nascere davvero.

Tutti capiscono che era stato Biden a guidare l’Affordable Care Act nel Senato – lui che, più di Obama, possedeva l’abilità di lottare, a quattr’occhi, con gli ostruzionisti più estremi. E se intanto i sassolini nella sua bocca ti fanno smarrire il senso di quello che sta dicendo, non è affatto un problema. Il messaggio più importante è già arrivato.

Non è semplice attaccare un uomo come lui sul piano ideologico. Il “trust di cervelli” per l’amministrazione Biden ha già cominciato a raccogliersi. Ha steso una serie di proposte da big-government; la scienza tornerà di moda; le tasse per i ricchi saliranno.

Eppure, sembra che stia celebrando una campagna dello spirito – dell’anima, appunto – più che dei programmi. Anche questo si dimostra intelligente da parte sua.

Trump lo attaccherà come se lui fosse Bernie, ovviamente. Ma il Paese ha già visto che, nelle primarie, Biden era l’anti-Bernie. Trump lo attaccherà come se fosse un incendiario o un saccheggiatore, ma la prima risposta di Biden di fronte al grido “togliete fondi alla poizia” era stata annunciare che lui, in realtà, non avrebbe tolto fondi alla polizia.

Per cui, cosa altro potrebbe fare Trump contro Biden, a parte tornare ai suoi grandi classici e accusarlo di aver commesso crimini?

Solo che, anche qui, Biden si dimostrerà ben corazzato. Anche se Trump verrà fuori con qualcosa di brutto da dire sull’Ucraina, nessuno gli crederà. Sulla Cina, è lo stesso Trump che, ovviamente, si è rivelato essere il pollo di Xi Jinping – non su tutto, ma sulla pandemia, ed è un fatto cruciale.

Nessuno può dirsi sorpreso di fronte al report di Bloomberg, che mostra come Trump sia il candidato preferito dai cinesi: anche se lancia accuse e cerca la guerra commerciale, sta indebolendo le alleanze americane, cosa che nel lungo periodo dà forza a Pechino. Il sostegno di Putin per Trump, a sua volta, riflette la stessa analisi.

In ogni caso, Trump non è serio nemmeno nella guerra commerciale contro la Cina, dato che, come ci racconta John Bolton, aveva offerto una tregua a Xi in cambio di un aiuto politico. E c’è anche la rivelazione, sempre di Bolton, per cui in privato Trump incoraggiava Xi a internare i musulmani in campi di concentramento, che potrebbe essere la cosa più sconvolgente mai fatta da lui.

Niente di tutto questo gli impedirà di presentarsi come se fosse il più agguerrito antagonista di Xi, comunque, e di accusare Biden di avere rapporti illeciti con la Cina. Ma la forza di questi colpi è andata persa da tempo.

II

E così, Trump tornerà – dovrà farlo – alla grande teoria del complotto su Robert Mueller e l’impeachment.

Una sorta di “Russiagate”, che riguarda il Deep State e il tentativo di mettere in moto un colpo di Stato contro il presidente, con cui sarebbero state inventate le accuse della sua collusione con la Russia, fino alla “bufala” dell’impeachment e alle accuse sull’Ucraina.

Non è mai stato chiaro, nella versione originale di questo “Russiagate”, perché mai l’Fbi avrebbe voluto fare un colpo di Stato. E perché mai Obama avrebbe voluto andare contro tutta la tradizione politica americana prendendo parte a questo complotto.

La teoria del “Russiagate”, in questi aspetti, è sempre apparsa un po’ deboluccia. Ma col tempo si è accresciuta e sono state proposte possbili motivazioni per i cospiratori.

Nel caso di Obama, avrebbe agito per proteggere il suo accordo con l’Iran. Con un allargamento della teoria, è stato tirato dentro anche Biden. Essendo lui ormai rimbambito, la sua candidatura non sarebbe altro che un cavallo di Troia per riportare Obama al potere con un obiettivo segreto: non solo proteggere l’accordo con l’Iran, ma anche la Repubblica Islamica iraniana stessa. Questa è, in poche parole, la campagna elettorale di Trump.

Solo un dubbio: ma perché mai Obama vorrebbe proteggere la Repubblica islamica? E perché ha deciso di andare a colpire il generale Mike Flynn, il primo dei quattro Consiglieri per la Sicurezza Nazionale di Trump?

Secondo la teoria, Flynn, ben lungi dal costituire un esempio gigantesco di corruzione politica e lealtà nazionale traballante, come sembrerebbe, sarebbe invece un americano di buoni valori, patriottico ed eroico, che è stato spinto dalle spire del complotto a mentire all’Fbi.

O anzi, Flynn non ha nemmeno mentito all’Fbi, bensì sarebbe stato spinto a mentire alla corte sulla sua presunta menzogna verso l’Fbi. Sono state offerte varie intricate argomentazioni per spiegare come mai queste idee per la difesa di Flynn non siano ridicole come sembrano – anche se chi subisce il fascino delle argomentazioni complicate potrebbe andare a vedere i commenti di Barbara McQuade, ex procuratore degli Stati Uniti in Michigan, si trovano nei blog di legge come Lawfare e JustSecurity e su Usa Today, dove si districano gli elementi intricati.

Ma la teoria del complotto sul “Russiagate” arriva a toccare punte di assurdità che nemmeno McQuade riesce ad affrontare.

Mi riferisco al motivo che è stato attribuito a Obama. Che, come sempre nelle teorie del complotto, viene sussurrato, insinuato, ci si allude. Ma non è mai detto in maniera aperta. Oppure, il motivo viene considerato “un mistero”, che lo rende inconoscibile ed eccitante.

Nel caso di Obama, però, chiunque abbia ingerito negli anni le teorie di Donald Trump capisce che nessun mistero è totale e che tutto, in realtà, è conosciuto. Perché Barack Obama non è americano. E non lo sanno forse tutti che Obama, che non è americano, è anche in segreto un musulmano? Le ragioni di Obama sono per definizione sovversive. Obama è determinato a distruggere lo stato ebraico. Non vuole altro che danneggiare l’America perché crede al piano islamico per la dominazione del mondo.

E, prendendo in mano la campagna di Biden, ormai rimbambito, ha dato prova di un ulteriore impegno sinistro nel suo diabolico piano.

Trump allude a tutte queste accuse quando utilizza la parola “traditore” mentre attacca Obama, come ha fatto di recente. I suoi sostenitori le arricchiscono, fanno sì che il “Russiagate” sembri fondato su una lettura di documenti ufficiali.

In questo modo, per riuscire a inglobare anche Biden, la teoria è esplosa in una nuova versione della follia dei birther. Tutto questo insomma, si viene ad assommare nell’espressione “Obamagate”, usata da Trump. Anche le email di Hillary faranno prima o poi una apparizione, se non lo hanno già fatto insieme forse alla vittima dell’omicidio che avrebbe perpetrato Joe Scarborough.

Vorrei tanto poter dire che nessuno, a parte le folle dei comizi di Trump, potrebbe mai risultare influenzato da questo genere di cose.

Invece, non posso fare a meno di notare che, qua e là, su organi di stampa degni di rispetto, perfino rivelazioni occasionali su errori procedurali minimi dell’Fbi danno origine ad attacchi di panico, e anche il miglior giornalista finisce per tirare fuori la parola “Russiagate”, come se un complotto sinistro contro il presidente fosse davvero esistito.

Le persone intelligenti che, senza molta attenzione, si concedono di usare questa espressione, normalmente non intendono chiamare in causa tutta questa assurda teoria, eppure anche loro non risolvono il difetto principale della questione, cioè che non importa quante volte l’Fbi possa aver commesso errori o essersi spinto troppo in là, la teoria del “Russiagate” non ha senso a meno che alle persone indicate come cospiratori anti-Trump venga attribuito un movente credibile.

Così, volente o nolente, il nome di Obama viene fuori e prima o poi potremo vedere quanto sarà ampio il raggio di diffusione della teoria.

Questo è già avvenuto, di tanto in tanto, anche tra i miei stimati colleghi di Tablet, compresa l’allusione al mistero-che-non-è-un-mistero delle intenzioni di Obama. È incredibile. È desolante. A me sembra che ci sia in circolazione, oltre al coronavirus, anche il virus di questa teoria del complotto. Oppure può essere che Trump abbia capito una cosa, cioè che nell’America di oggi le persone trovino irresistibile questo tipo di storie.

Trump, allora, continuerà con il “Russiagate” per poter attaccare Biden. E le elezioni del 2020 seguiranno un altro tracciato rispetto a quelle di midterm del 2018. Trump le aveva impostate come un referendum dell’odio dei nativisti contro gli immigrati, come avevo indicato all’epoca – cosa che ha funzionato bene per lui e per i Repubblicani per il Senato, anche se è andata male per quelle della Casa dei Rappresentanti.

Ma quest’anno Trump le imposterà almeno in parte come un referendum su queste folli teorie del complotto, insieme a momenti di attacchi alla Cina in stile “Kung Flu”, fatti per compiacere la folla, gli onori ai Confederati e l’evocazione del fascismo degli antifa, dei saccheggiatori, degli stupratori e degli insegnanti. Come andrà a finire, stavolta? I suoi sostenitori lo troveranno molto divertente.

Biden, però, sembra avere anticipato queste cose. Le teorie del complotto si sono dimostrate efficaci contro Hillary Clinton perché i Clinton erano troppo abili nel fare i loro interessi, cosa che ha spinto una parte degli elettori ad attribuire loro dei tratti diabolici.

Le teorie del complotto hanno avuto successo, almeno in parte, anche contro Obama – in questo caso perché è nero e oltretutto ha un nome buffo, tutte cose che hanno spinto alcune persone (sempre della stessa risma di elettori), a considerarlo troppo lontano da loro, per cui esotico e, di conseguenza, potenzialmente demoniaco.

O ancora, le teorie del complotto hanno avuto successo, di tanto in tanto, perché le politiche estere americane, goffe o sbagliate, hanno talvolta scatenato attacchi di isteria tra gli amici di Israele, e l’Isteria porta a congetture paranoiche, come quella tra Obama e l’islam.

Biden, però, ha passato l’ultimo mezzo secolo a presentarsi come il classico uomo della porta accanto, da Scranton, Pennsylvania, affidabilmente cattolico, ordinario e privo di misteri. Qualsiasi cosa Trump abbia pensato, sembra che Biden l’abbia già immaginata, armandosi per difendersi.

I sospetti e le isterie volano verso Biden, e rimbalzano contro il suo elmetto di protezione. Per cui, la campagna è cominciata.

Ma, come conseguenza, la grande accusa che animerà il fronte repubblicano, cioè quella per cui Biden sia uno strumento di un complotto afro-islamico alieno per distruggere lo stile di vita americano in nome della Repubblica Islamica dell’Iran, be’, sembra destinata a sembrare un po’ troppo. Perché, puoi dire quello che vuoi, ma è difficile odiare Biden.

 

(Articolo pubblicato in inglese su Tablet)