Un articolo pubblicato ieri sulla pagina delle opinioni del Wall Street Journal ha promesso ai lettori che la linea editoriale dei commenti del quotidiano finanziario non subirà i ricatti conformisti e intolleranti del mondo progressista che da qualche tempo si stanno imponendo con maggiore virulenza sulle scelte dei giornali americani.
L’articolo era la risposta del board della op-ed page, da cinquant’anni una ridotta intellettuale del mondo conservatore, a una lettera di 280 giornalisti dello stesso quotidiano che chiedeva maggiore accuratezza e rigore nel curare quella pagina. La replica è stata secca: non cederemo alla cancel culture, alla cultura della cancellazione di un pensiero non ortodosso, non siamo il New York Times che ha dovuto licenziare il responsabile dei commenti James Bennet e ha costretto una brava columnist come Bari Weiss a dimettersi in quanto colpevoli l’uno di aver pubblicato un articolo di un senatore trumpiano e l’altra di esprimere senza ritegno il suo pensiero non in sintonia con lo spirito del tempo.
Sempre ieri, l’editorialista del New York Times, David Brooks, proprio su quelle pagine dei commenti che hanno fatto scandalo, ha scritto che con gli standard attuali uno dei più grandi polemisti degli ultimi venticinque anni, lo scomparso Christopher Hitchens, uno che non si lasciava mai scappare l’occasione di criticare i sepolcri imbiancati (scusa, Hitch, per la citazione biblica), oggi sarebbe senza lavoro.
Brooks ha fotografato il problema e il Wall Street Journal fa bene a difendersi, mentre i cancellazionisti vivono in un mondo che non esiste. Esempio: chiedere la cancellazione degli editorialisti giustizialisti sul Fatto, di quelli sovranisti sulla Verità e di quelli comunisti sul Manifesto è insensato, perché è la linea editoriale di quelle pubblicazioni. Allo stesso modo, nessuno può sentirsi offeso dal fatto che Travaglio non ospiti opinioni garantiste, che Belpietro non pubblichi articoli intelligenti e che il quotidiano comunista diffidi delle analisi neoliberiste. È giusto che sia così, così come è giusto che altri facciano in modo diverso. Impermalirsi è grottesco e anche pericoloso perché il fenomeno della prevalenza degli offesi cui stiamo assistendo non favorisce la circolazione delle idee, ma limita la libertà di stampa.
Linkiesta, nel suo piccolo, non diffonde opinioni sovraniste e populiste, e nemmeno fasciste o comuniste, ma non perché sia antidemocratica e illiberale, ma perché ritiene che il compito di un giornale d’opinione sia intanto quello di avercela un’opinione, poi di esprimerla e infine di condividerla con i lettori. Altri fanno legittimamente il contrario e ospitano pareri contrapposti per lasciare a chi legge l’onere di farsi un’opinione, ma è una scelta che riguarda gli editori, i giornali e le comunità di riferimento, non è dettata dal pensiero unico dei teppisti dei social.