La vicenda della Caserma Levante di Piacenza, come quella degli abusi di Bibbiano un anno fa o lo scandalo del magistrato Luca Palamara, mette le “anime belle“ di fronte alla cruda realtà di una illegalità strisciante e diffusa che permea le istituzioni dello Stato.
La solita litania delle poche mele marce che non infettano l’albero robusto non regge più: lo Stato, le sue articolazioni amministrative, giudiziarie e di sicurezza, sono malate e la patologia non riguarda soltanto pochi terminali ma affonda nel modello, nelle direttive, nelle normative che partono dai vertici.
Leggendo l’asciutta quanto agghiacciante ordinanza del gip di Piacenza, i termini delle gesta dell’appuntato Montella e dei suoi complici appaiono nella sostanza chiari: sotto l’egida dello Stato veniva alimentata una illecita attività di infiltrazione e di informazione sulle attività di spaccio in città, tramite informatori arruolati tra gli stessi criminali, che venivano pagati per il servizio con i proventi dei sequestri effettuati grazie alle loro soffiate.
Probabilmente da questa conduzione delle indagini i militari dell’Arma ricavavano anche tornaconti personali anche se su questo al momento vi sono indizi e non prove, ma il cuore della storia è questo: l’uso di metodi illeciti quali lo spaccio e la violenza per un fine superiore quale la lotta al crimine, da sconfiggere violando la legge.
Una anomalia? Non proprio: la questione è vecchia e i giuristi la conoscono bene. Alligna nelle stesse leggi dello Stato il principio del fine ultimo giustificato dal ricorso al mezzo illecito. Esiste da sempre una vasta e limacciosa zona grigia di rapporti incoffessabili tra guardie e ladri, di scambio di favori, di concessioni di impunità in cambio di informazioni se non di vere e proprie compravendite di colpevoli o presunti tali.
Molti di coloro che oggi gridano allo scandalo per la storia della caserma Levante ignorano, o fanno finta di non sapere, che le stesse leggi dello Stato consentono l’impunità alle forze dell’ordine che «danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato», se ciò è commesso dagli «ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del corpo della Guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle proprie competenze, …nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova».
Il linguaggio a mala pena cela l’esatto significato delle parole: esiste una norma dello Stato, l’articolo 9 della Legge 146/2006 che autorizza la licenza di commettere crimini (per ora non quella di uccidere come 007, ma mai mettere limiti) con l’unica apparente e formale delimitazione costituita dalle operazioni di polizia che gli stessi organi investigativi si organizzano da sé. Una sorta di auto-immunità che il benemerito ministro Alfondo Bonafede con la sua famosa legge Spazzacorrotti ha pensato bene di estendere anche alle indagini sui reati corruttivi. Facile immaginare le ricadute, in termini di reati indotti, con la pioggia di miliardi provenienti dall’Unione Europea grazie al Recovery Fund.
Il punto critico di queste normative, pur riconoscendo le migliori intenzioni al legislatore, è che alla fine diventa difficile distinguere quale sia il reale vantaggio di ingenerare nuovo crimine con la consumazione di altri reati, in una sorta di circolo vizioso dell’illegalità che travolge lo stesso Stato, a causa della mancanza di controlli adeguati.
Ricordando le gesta cinematografiche di Donnie Brasco qualcuno potrebbe obiettare che ogni Stato di diritto prevede attività clandestine, ma in Italia appare evidente l’insufficienza di una supervisione rigorosa e di una trasparenza sui criteri di controllo. Il male endemico di questo paese che si riflette anche in questo campo.
Piacenza non è neanche il caso più clamoroso di devianza. Ben più grave, in quanto maturato totalmente nell’ambito dello Stato e dei suoi servizi di polizia, fu la vicenda del generale Giampaolo Ganzer, comandante del prestigioso reparto dei Carabinieri del ROS, il corpo scelto cui vengono delegate le indagini più difficili e complesse.
Ganzer fu condannato (e poi prosciolto per intervenuta prescrizione) per aver costituito e diretto insieme ad altri uomini del suo reparto un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e ad altri reati. In sostanza l’ufficiale aveva organizzato una quarantina di vere operazioni di importazione di stupefacenti e di traffico di armi, concordate con pericolosissime associazioni criminali internazionali. Lo scopo era quello di scoprire, mediante la cessione delle sostanze tramite agenti infiltrati, la rete italiana dei trafficanti, scopo non realizzato perché la magistratura, scoperta l’anomalia dell’iniziativa, ordinava la distruzione della sostanza.
Ne scaturì un clamoroso processo che portò a condanne pesantissime in primo grado poi evaporate nei successivi gradi di giudizio in virtù di un innovativo principio stabilito dalla Cassazione che ritenne fatto di modesta entità l’importazione e la detenzione di diversi chili di droga dall’estero in quanto, testualmente, «trattasi di quantitativo solo apparentemente rilevante, ma in realtà del tutto virtuale perché non destinato a circolare ed essere immesso sui mercato… ed anzi sequestrato subito dopo l’importazione per essere ceduto in quantitativi modesti come campione in vista di successivi acquisti propedeutici alla scoperta dei trafficanti interni ed al loro arresto».
Un precedente unico e destinato a restare tale che costituisce l’apoteosi del principio che il fine giustifica il mezzo anche più spregevole, adottato quasi in simbiosi con la decisione dei vertici dell’Arma di non sospendere e di non sanzionare il generale Ganzer e i suoi sottoposti che hanno proseguito senza intoppi la loro carriera.
Come felicemente evidenzia l’ordinanza del gip di Piacenza, alla base del grave episodio della caserma Levante c’è proprio la spregiudicata voglia di far carriera non solo dei carabinieri arrestati ma anche dei loro superiori che ne alimentavano le iniziative con un solo scopo: fare più operazioni ed arresti possibili.
Una volontà che porta a una percezione onirica del proprio potere, secondo l’ordinanza cautelare: una definizione che potrebbe attagliarsi a tutte le situazioni di devianza istituzionale da cui questo paese è devastato in questi giorni.
È diffusa in Italia, e vieppiù in quel delicato settore che è la giustizia penale, la nociva convinzione che il fine giustifichi i mezzi, una sorta di “whatever it takes” in chiave criminale che giustificherebbe ogni sorta di disinvoltura in nome del risultato finale che coincide con l’abbattimento del simbolo del malaffare più in voga in un dato momento storico (a scelta: il politico, l’alto prelato pedofilo, il criminale inafferabile, lo stalker).
Questo spregiudicato attivismo, svincolato dal rispetto dell’etica, è la vera causa di vicende come quella di Piacenza e di altre. Chi lavora nel campo del diritto sa che oggi, tranne rare eccezioni, nelle indagini penali può succedere di tutto, vengono infrante le regole con cattive prassi quasi codificate, non sanzionate adeguatamente da chi, come i giudici delle indagini preliminari, dovrebbe controllare la correttezza degli inquirenti (basti pensare alla facilità con cui vengono concesse le intercettazioni).
Sotto questo profilo bisogna dire che la risposta degli organi giudiziari piacentini è stata adeguata e senza indulgenze: speriamo diventi la regola in tutto il paese.