Nessuna sorpresaIn Italia sono le donne che hanno pagato di più la crisi del lockdown

Poche, con contratti precari, scontano il divario di genere nel Paese (uno dei peggiori in Europa). Il quadro che emerge è desolante: mostra una scarsa partecipazione, unita a possibilità di carriera minime

Durante il lockdown moltissime persone hanno dovuto ridurre le ore lavorate, lo sappiamo. Un computo che accomuna dipendenti posti in cassa integrazione, professionisti del commercio o del turismo costretti a ferie forzate e soprattutto non pagate. Ma nessuno in Europa è messo male quanto le donne italiane.

Anche solo guardando ai primi (parzialissimi) dati che riguardano il primo trimestre di quest’anno, quelli che includono l’esiziale mese di marzo, appaiono evidenti due cose: come l’Italia sia prima per ore di lavoro perse, ma soprattutto come siano state le lavoratrici a dover rinunciare al lavoro ancora più dei colleghi uomini.

Le ore perse sono state il 10,3% nel loro caso. Nessuno ha fatto così male, e anzi in Svizzera e Finlandia dove le restrizioni sono state più blande rispetto al precedente trimestre le donne hanno addirittura lavorato di più.

Fonte: Euromedia, variazioni rispetto al precedente trimestre

Il trend è comune. Anche nella maggior parte degli altri Paesi sono state le donne ad essere sfavorite rispetto agli uomini.

Ma soltanto in Italia, in Grecia (e in pochi altri) non solo i numeri sono risultati peggiori della media, non solo il divario tra uomini e donne è stato più grande di quello europeo in generale, ma c’è anche una coincidenza tra questi dati e quelli relativi a un divario ancora più importante, anch’esso da record in Europa: quello tra l’occupazione maschile e femminile, con quest’ultima ferma da sempre sotto il 50% nel nostro Paese.

Sembra che là dove le donne lavorano già di meno vi sia stato il maggiore calo di ore lavorate.

Fonte: Euromedia

Di primo acchito si tratta di un dato controintuitivo. Sarebbe spontaneo pensare che le poche donne che lavorano siano quelle che hanno magari trovato un impiego più stabile e sicuro, meno a rischio in caso di crisi.

In fondo una piccola evidenza di questo vi è nei dati sul gender gap negli stipendi, che in Italia appare minore che altrove.

E invece non è così.

Forse si potrebbe pensare che questa sia una diretta conseguenza del fatto che negli ultimi 10 anni l’occupazione femminile sia aumentata più di quella maschile, e che quindi molti dei nuovi lavori in gran parte precari erano andati alle donne.

Questo è vero solo in piccola parte.

Innanzitutto perché qualsiasi incremento nel lavoro femminile è comunque stato inferiore a quello avvenuto in altri Paesi: anche prima del ciclone Covid le ore lavorate dalle donne italiane erano cresciute solo del 6,9% rispetto al lontano 2006 – comunque meno che nella media Ue o in Spagna, e molto meno che in Francia e Germania, dove il progresso era stato superiore al 10% (per non parlare dei Paesi Bassi, paradiso del part time, in cui l’incremento era stato superiore del 25% e più).

Fonte: Euromedia

In secondo luogo perché il grosso delle statistiche sul numero maggiore di donne al lavoro in realtà è dovuto alla grande massa di lavoratrici over 50 che non vanno più in pensione anticipata come un tempo, ma che in seguito alle varie riforme pensionistiche rimangono occupate.

Considerando solo le 25-29enni e le 30-34enni la curva occupazionale non appare realmente differente a quella degli uomini.

Fonte: Euromedia

Sono quindi poche, troppo poche le giovani donne con un lavoro. E nonostante siano poche sono però anche quelle con maggiore concentrazione di contratti a tempo determinato, più precari.

Ancora una volta non è vero che se sono poche a lavorare quelle poche se la cavano meglio, perché magari le donne con meno skill, si potrebbe pensare, semplicemente rimangono nel calderone nelle inattive.

Fonte: Euromedia

No, il consueto trade off tra quantità e qualità, in cui una compensa l’altra, qui non si verifica. Le donne hanno meno lavoro e di peggiore qualità.

Certamente vi è un tema discriminatorio. Che le donne in età fertile guarda caso debbano accettare più spesso contratti a termine più dei colleghi maschi, che non “rischiano” di rimanere incinti, è un fatto. E il record negativo del nostro tasso di fertilità, sotto 1,3, e le culle vuote non sono una pura coincidenza rispetto a questi dati.

Ma vi è anche altro, visto che le donne non fanno gli stessi lavori degli uomini e non sono distribuite in modo trasversale ed omogeneo nei vari settori, tutt’altro. Neanche se giovani.

E questi larghi divari nel tempo sono anche cambiati.

A fronte di un aumento di pochi decimali della proporzione di lavoratrici donne sul totale tra i 15-39enni, che è passata dal 41,6% a 42%, vi è stato un netto calo in alcuni dei segmenti forse più stabili, come sanità ed educazione, in cui pure le donne sono larga maggioranza.

Sono invece aumentate di quasi 4 punti nel settore delle professioni tecniche e scientifiche, in cui è alta la percentuale di autonomi, partite IVA, di contratti e consulenze brevi, più che precarie.

C’è stato anche un deciso calo nell’ICT, uno degli ambiti più dinamici, che ha portato la presenza femminile dal 36,4% al 29,1%.

Fonte: Euromedia

È chiaro che se per qualche motivo neanche le più giovani riescono a progredire verso la parità nei settori più sicuri e remunerativi, il futuro non può essere roseo per le donne.

I discorsi sulla parità di genere spesso partono a valle, per esempio dalla percentuale di dirigenti, manager, deputati di sesso femminile. È stata fatta una legge sulle quote di genere nei Cda delle aziende.

Ma quanto può servire questo approccio, se non a fare qualche titolo per qualche donna simbolo giunta in posizioni apicali?

Per una Samantha Cristoforetti e una Marta Cartabia arrivate al gradino più alto possibile delle rispettive carriere vi sono milioni di donne che non iniziano neanche, che rimangono nell’inattività, o che quando si danno da fare decidono, per scelta, costrizione, conoscenze parziali, di percorrere strade meno convenienti, dal punto di vista del settore lavorativo o del campo di studi.

Quella stessa mancanza di attenzione verso i più giovani e verso l’istruzione che abbiamo visto in questa emergenza Covid colpisce ancora di più l’anello più debole, quello femminile.

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