Il primo ministro ceco, Andrej Babiš, contesta apertamente la proposta della Commissione europea sul Recovery Fund, che come noto sarà agganciato alla distribuzione di fondi strutturali del bilancio Ue per il periodo 2021-2017. L’ipotesi di Bruxelles, sostiene Babiš, è troppo sbilanciata verso le “cicale” dell’Unione; molto poco generosa verso chi, come Praga, in questi anni ha tenuto i conti in ordine; e oltre modo vincolata al tasso di disoccupazione pre-pandemia (a gennaio quello ceco era del 3,1%).
Una dozzina di giorni fa, quando i capi di stato e di governo dell’Ue hanno avviato le discussioni sul piano di rilancio, Babiš ha minacciato di porre il veto. E non avrebbe diritto di farlo, secondo il Parlamento europeo. Di più: non dovrebbe esprimere alcuna posizione su questioni che riguardano il bilancio dell’Unione, almeno fintanto che non scioglierà il nodo del conflitto di interessi; la concentrazione, nelle sue mani, di potere politico e potere finanziario. Questo il contenuto di una risoluzione molto severa votata a maggioranza dall’aula nello stesso giorno dell’avvio dei negoziati sul Recovery Fund.
Nel testo – e veniamo ai dettagli del conflitto d’interessi – si spiega che Babiš risulta ancora il titolare di Agrofert, il colosso agro-chimico, attivo anche oltre il perimetro di questo comparto, di cui è fondatore. La carica politica che ricopre consiglierebbe il blind-trust, ma le misure adottate in questo senso sono insufficienti. Pura cosmesi.
E poiché Agrofert e le sue tante controllate sono beneficiarie di fondi europei, la situazione che si configurerebbe, quando di mezzo ci sono questioni di bilancio e ripartizione di risorse comunitarie, è che Babiš, il secondo uomo più ricco della Repubblica Ceca, negozia non per il suo Paese, ma per sé stesso.
La risoluzione, votata a larghissima maggioranza, chiede alla Commissione di intervenire sulla vicenda e suggerisce a Babiš, nel frattempo, tre possibili vie d’uscita dal pasticcio. Uno: rinunciare in modo chiaro alla titolarità di Agrofert. Due: bloccare i fondi nazionali o europei che l’azienda riceve: Tre, la più incisiva: rassegnare le dimissioni da primo ministro.
La risoluzione è il frutto di una lunga indagine della commissione del Parlamento europeo per il controllo del bilancio, guidata dalla cristiano-democratica tedesca Monika Hohlmeier. A suo dire, il sistema politico e burocratico di Praga non riesce a individuare, prevenire e risolvere il conflitto d’interessi del primo ministro. O non vuole.
Insieme a cinque colleghi, Hohlmeier si era recata nella città boema a febbraio. Babiš doveva riceverla, ma quasi senza preavviso aveva disdetto. Una scortesia. Non solo: aveva definito Hohlmeier una pazza e bollato i due eurodeputati cechi membri della delegazione – Tomáš Zdechovský e Mikuláš Peksa – come traditori, salvo poi scusarsi, aveva riportato il Guardian in un pezzo di aprile.
Dopo le parole pesanti di Babiš, Zdechovský ha subito minacce di morte. Al momento è sotto scorta con la sua famiglia. E proprio su questo punto è arrivato l’intervento, ieri, del presidente dell’Europarlamento David Sassoli. In una lettera inviata a Babiš, oltre a difendere i legittimi poteri di indagine dell’aula che presiede, Sassoli ha espresso «grande preoccupazione per gli attacchi personali diretti ad alcuni membri di quest’assemblea in relazione a questo caso».
E questo è il più recente degli sviluppi dell’affaire Babiš, che da molto lontano: dal momento del suo ingresso in politica, con la fondazione del partito Ano 2011, dove 2011 indica l’anno di nascita e l’acronimo sta per Akce nespokojených občanů, Azione dei cittadini insoddisfatti. Ma ano, in ceco, significa anche sì.
Babiš, nativo di Bratislava, trasferitosi a Praga dopo la caduta del comunismo nel 1989 e accusato persino di essere stato un agente dei servizi cecoslovacchi, fu molto abile a captare il brontolio della pancia del Paese. Soffiava, all’epoca, un vento di rifiuto verso la classe dirigente – un duopolio conservatori-socialdemocratici – che aveva gestito il potere dopo la caduta del comunismo. Al voto, gli andò molto bene: 18%, seconda forza del Paese.
Ano 2011 entrò nel governo, a guida socialdemocratica, e Babiš si assicurò il ministero delle Finanze, aumentando sensibilmente la mole del conflitto d’interessi. Al punto che fu ribattezzato Babisconi. Potere economico, politico e persino mediatico: per tirarsi la volata elettorale l’oligarca si comprò due giornali, Mladá fronta DNES e Lidové noviny. Ancora li possiede il gruppo Agrofert.
Nel 2017 altro successo elettorale, ancora più eclatante. Con il 29%, Ano 2011 diventa il partito di maggioranza relativa. Per Babiš si aprono le porte del palazzo del governo. Da allora è in sella, spalleggiato dal presidente della repubblica Miloš Zeman, ex socialdemocratico oggi sensibile al sovranismo. Anche il primo ministro ha cambiato registro e pelle.
Si era presentato agli elettori come una sorta di Obama, mentre oggi è più vicino a Viktor Orbán, pur se non ne possiede la forza d’urto ideologica. La Repubblica Ceca è pur sempre il Paese della riforma protestante mancata; c’è una diffidenza di fondo verso il potere e il grande capo (un po’ anche nei confronti dell’Unione europea), a volerla mettere sull’antropologico.
A non mutare è il conflitto d’interessi, che ha anche una sua dimensione giudiziaria. Prima della vittoria elettorale del 2017, scattò un’indagine per l’appropriazione indebita di fondi Ue, per due milioni, da parte di Čapí Hnízdo (Nido di cicogna), un resort ecologico controllato da Agrofert.
Le ricostruzioni indicano che per assorbire i fondi, risalenti agli anni 2007 e 2008, si staccò momentaneamente dalla casa madre per poi rientrarvi. E questo gioco di movimenti tra sussidiarie e casa madre, un gioco opaco e veloce, sarebbe lo schema con cui Agrofert, tramite le controllate, ottiene fondi che non le spetterebbero, sostengono i detrattori del primo ministro ceco.
L’inchiesta è stata a un certo punto archiviata, ma da dicembre, su iniziativa del procuratore generale della Repubblica Ceca, è nuovamente aperta. E resta così la domanda: è davvero lui, Babiš, a controllare ancora il colosso agro-chimico e i suoi numerosi arti?
Intanto, Babiš resta a palazzo. In questi anni ha resistito a critiche, mozioni di sfiducia e proteste di piazza. Lo scorso anno il movimento Milion chvilek pro demokracii, letteralmente “Un milione di momenti per la democrazia”, ne organizzò due imponenti, il 23 giugno e il 16 novembre, al parco di Letná, chiedendo le dimissioni di Babiš. Vi presero parte, in entrambe le circostanze, più di duecentomila persone. Sono considerate le manifestazioni politiche più grandi dalla fine del comunismo.
*Matteo Tacconi – Centrum Report