Land of opportunity Che cosa deve l’America bianca all’America nera

Il razzismo è ormai un prodotto della dominanza economica e negli Stati Uniti è ancora forte la sensazione che gli afroamericani siano considerati un effetto collaterale della storia. L’unico modo per rimediare, dicono alcuni, è pagare un indennizzo a tutti i cittadini neri

Afp

Incastrati tra il Covid che ha messo radici e la rivolta razziale che stavolta non spegne i fuochi  – anche perché c’è sempre un nuovo poliziotto e un nuovo telefonino in qualche angolo del paese pronti a rinfocolare la questione – gli americani imboccano un’estate che sarà torrida e memorabile per un sacco di scomodi motivi.

Ma se forse prima o poi un vaccino riuscirà dove Trump ha grossolanamente fallito (contenere l’epidemia), l’apertura della acre conversazione sulla persistente disparità razziale sembra aver occupato militarmente il cuore del dibattito americano, perfino adesso che, alla vigilia delle elezioni, è norma consolidata lasciar spazio alle questioni economiche e alle promesse di sicurezza, nella speranza di sedurre le simpatie dell’elettorato.

Così, mentre le marce e le manifestazioni rallentano il ritmo, ma sono sempre pronte a ripartire, il doppio binario del dibattito politico e mediatico rispolvera una questione vecchia come la nuova America, in quanto nato al termine di quella Guerra Civile che pose fine allo scandalo della schiavitù: la riparazione. O meglio, il risarcimento. La restituzione del danno. La sanatoria che, originata dalla colpa etica, provi a sconfinare nella quantificazione materiale, in cerca di requie, se non di giustificazioni.

Una storia antica, dicevamo, come quella dei 40 acri di terra e di un mulo per lavorarla, sanciti da Abramo Lincoln come primo passo della riconciliazione, come se il sudore intinto finalmente nella libertà potesse divenire l’unguento che salda i lembi di una ferita sanguinante. Che si sarebbe infettata subito dopo il gennaio del 1865 in cui il generale Sherman emise lo Special Field Order 15, che appunto prevedeva la distribuzione di centinaia di migliaia di acri di terra confederata ai neri liberati in Carolina e Georgia. Quattro mesi dopo Lincoln viene assassinato e Andrew Johnson, il suo vice di aperte convinzioni razziste ribalta la disposizione.

Siamo al passaggio-chiave per ciò che concerne la questione del risarcimento, per come troverà accomodamento nella coscienza della maggioranza degli americani bianchi, fino a oggi: il risarcimento, in sostanza, era stato già pagato col sangue dei morti che, combattendo la Guerra Civile, avevano restituito la libertà ai neri. Debito saldato. 

I quattro milioni di “liberati” godevano ora del privilegio di potersi dichiarare americani, nonostante il colore della loro pelle. L’emancipazione, dunque, era il risarcimento. Nudi, frustrati, sradicati, incolti, confusi – ma alla mèta. Poteva andare peggio, no?

Zero opportunità, un ritardo incolmabile, una strisciante sottomissione, una definitiva subalternità – ma liberi. All’apparire dei Codici Neri che definivano la nuova forma di umiliazione, questa volta nazionalmente legalizzata, qualcuno si azzardò a dire «schiavitù con un altro nome». Ma si è ripartiti così e da allora la vicenda ha camminato in questo solco, transitando per i 6500 linciaggi di neri tra il 1860 e il 1950, che si sono evoluti nei 300 afroamericani uccisi dalle Polizie dal 2015 al presente.

Chiari sintomi della persistenza del razzismo, della intima convinzione di dominio dei bianchi, in particolare di quelli intitolati a rappresentare “legge e ordine”, nei confronti della perenne, percepibile, psichica minaccia rappresentata dai neri, dal loro rancoroso livore e dalle loro nevrotiche pretese di rivincita. Neri a loro volta consapevoli del pericolo continuo, in agguato dietro le occasioni più futili, di essere presi, posseduti e distrutti.

Allorché il tema ciclicamente si è arroventato e la questione è tornata nel cuore della discussione, è però sempre rispuntato – anche oggi – il tema del risarcimento. Perché tutti concordano ormai su un principio: il razzismo è un prodotto della dominanza economica, e non viceversa. In un certo senso, è un lusso consentito, un optional che arriva con la superiorità della ricchezza sulla povertà, un vantaggio che non può essere scalfito.

Ta-Nehisi Coates, che 6 anni fa scrisse sull’Atlantic uno dei più importanti saggi al riguardo, resta ancora convinto che solo lo sparigliamento di questo predominio tattico nella società americana, potrebbe rendere più instabili i pilastri del razzismo, che si tramandano con una trasmissione genetica.

Coates dice: «Mi fa piacere, se non altro, che la gente abbia smesso di sorridere, quando si parla di riparazione. È importante. Ma significa che domani ci sarà una riparazione materiale? No. Significa che la battaglia è finita? No. Ma è un passo e penso abbia un significato».

Parole calme, analitiche, che si sottraggono all’emotività e alla disperazione di chi si ostina a pretendere il riconoscimento di un torto così grande da ferire eternamente l’umanità, paragonabile solo all’Olocausto. Coates intende dire che se la questione viene presa seriamente, anche se il risarcimento non avverrà mai, il suo significato acquisirà comunque una statura, una presenza psicologica, e si avrà un risultato.

Sulla stessa linea muove Nikole Hannah-Jones, Pulitzer 2020 per “The 1619 Project”, gigantesca rivisitazione a puntate della questione razziale dalle prime deportazioni al presente, pubblicata sul NY Times: nel servizio di copertina del Magazine dello stesso quotidiano la Hanna-Jones ripropone la questione. Titolo: “Cosa è dovuto” – senza punto di domanda, ma come affermazione. Proponendo poi un’esauriente trattazione dei tentativi falliti, delle promesse non mantenute, del riprovevole flip-flap della politica sull’argomento, che ha coinvolto senza effetti Barack Obama, Hillary Clinton e Bernie Sanders.

Fino a questa attuale, assurda estate americana del caos, in cui programmi, progetti, piattaforme elettorali, tutto è andato a farsi benedire, sotto le bordate del Covid – anch’esse distintamente connotate in chiave razziale – e il deflagrare di quella che chiameremmo “vergogna-pop”, per come s’è scatenata dai filmatini dei cellulari, dalla diffusione virale della rabbia, dal complicato contaminarsi tra impegno, frisson da politicamente corretto, militanza anti-trumpiana e un sentimento di scontento anarchico (da destra e da sinistra), fin troppo sottovalutato.

Può davvero accadere qualcosa del genere? Si può quantificare il prezzo del dolore, delle sofferenze inflitte e dei morti? Certo che no. Ma diventa uno sport che viaggia sul filo della corriva provocazione intinta nell’arsenico (sul genere: «Adesso, per farvi incazzare, vi stuzzichiamo sul portafogli…»), quando Robert L. Johnson, cofondatore della BET, la cable-tv dedicata ai neri, se n’esce con la richiesta precisa di 14 miliardi di dollari, come costo del sollievo da offrire ai discendenti di coloro che patirono la schiavitù per due secoli e la discriminazione per il secolo successivo.

Cifra pro-capite: 350mila dollari, da pagare in 10 o 20 anni, cash. Johnson la definisce «la punizione per il delitto» e l’antidoto al suo persistere. Il ragionamento, che ovviamente serve a smuovere i silenzi, è questo: se è vero che gli americani sono tutti creati uguali, come dicono le sacre carte, questi quattrini rimetteranno in quota di galleggiamento i neri rispetto al terribile svantaggio economico che continuano a patire nei confronti dei bianchi.

A quel punto, vinca il migliore. Ovviamente niente di tutto ciò potrà mai sfiorare la realtà. I sondaggi dicono che 8 bianchi su 10 sono contrari al risarcimento. E che solo il 58 percento dei neri è disposto a reclamarlo. Pat Buchanan ultima incarnazione del suprematismo legalizzato al Congresso, irride i politici democratici emergenti che provano a sostenere la causa, come Alexandria Ocasio-Cortez e Cory Booker: «I democratici chiedono di pagare? Non si ricordano che sono loro il partito degli schiavisti, il partito dei Jefferson e dei Jackson, il partito che ha messo un uomo del KKK alla Corte Suprema? Noi, modesti repubblicani, siamo sempre stati l’argine a tutto ciò».

Giochetti dialettici, vecchia politica, ma soprattutto stagionate convinzioni: quel che è fatto, è fatto. Errori ci sono stati, ma anche rimedi e meriti. Scarnificare il passato non serve, ma credere di scuotere lo status quo è un’illusione. Allora, rieccoci a guardare le esasperate dimostrazioni di piazza, ad ascoltare le invocazioni, gli appelli, le minacce.

Dove si va? Lyndon Johnson, architetto della Great Society, nel discorso del 1965 “Soddisfare questi diritti” diceva: «La povertà negra non è la povertà bianca. Queste differenze non sono differenze razziali. Sono solo la conseguenza dell’antica brutalità, dell’ingiustizia passata e del pregiudizio presente. Sono angoscianti. Per il nero sono un costante richiamo all’oppressione. Per il bianco, un costante richiamo alla colpa. Ma devono essere affrontati e superati, per arrivare al momento in cui l’unica differenza tra neri e bianchi sia il colore della pelle». Che si traduce in buona volontà.

Niente risarcimenti sul conto corrente, ma opportunità. Per una casa, un lavoro, per la salute – quella appena rimandata indietro di mezzo secolo dal successore del presidente nero, Donald Trump. Una cauta politica della ridistribuzione delle ricchezze, attraverso l’apertura di finestre di opportunità.

Ma tutto ciò ha veramente un senso nella grande America che per decenni assiste al sistematico massacro dei neri per le strade della nazione e che dà segni di risveglio nel momento in cui lo choc del Covid rende più naturale associarsi a una manifestazione di piazza?

Cioè, la domanda finale è: è vero o no che una seria maggioranza di americani bianchi è pronto a condividere la propria condizione con quei neri che ha sempre vissuto in posizione di inferiorità, prona, come i disgraziati soffocati dalle ginocchia dei poliziotti fuori controllo? È davvero così (la stessa domanda se la dovrebbero porre altre nazioni silenti)?

Nel romanzo iconico del Novecento americano – il cosiddetto momento trasformativo, ammesso sia stato veramente tale – insomma nel “Buio Oltre la Siepe” di Harper Lee avviene uno slittamento catartico: il cuore emotivo della storia passa liquidamente dall’ammazzamento di Tom Robinson, il bracciante nero ingiustamente accusato di aver violentato una ragazza bianca, al gesto di Boo, il bianco minorato recluso in casa, che interviene per salvare la vita degli eroi della storia, Scout e Jem.

Tom, nel nome del quale il paladino “negrofilo” Atticus ha cercato giustizia, viene fatalmente sacrificato, diviene merce da pagare, al cospetto della peripezia che proietta i protagonisti verso l’età adulta e verso una migliore America del futuro.

Ecco: questa sensazione che gli afroamericani siano ancora considerati un effetto collaterale, una perdita calcolabile nella traiettoria dei titolari della grande avventura, per adesso è ancora in sospensione. Probabile che il prossimo inquilino della Casa Bianca debba cercare le parole giuste e gli strumenti effettivi per tentare il definitivo disinnesco di questa bomba sociale. Operazione che, come sappiamo tutti, è ad altissimo rischio di disastri.

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