Rainer Zitelmann è uno storico, giornalista e manager tedesco. Ha lavorato presso l’Istituto centrale di ricerca in scienze sociali della Libera Università di Berlino per poi fare il caporedattore prima del gruppo editoriale Ullstein-Propyläen e successivamente del quotidiano Die Welt. Nel suo ultimo libro “La forza del capitalismo: un viaggio nella storia recente di cinque continenti” , Zitelmann ragiona sull’avversione nei confronti dell’attuale sistema economico e sull’invidia sociale che provoca chi riesce ad avere successo. Questo è l’articolo con il quale Zitelmann dà inizio alla sua collaborazione con Linkiesta.
La pandemia da coronavirus non è la causa dell’attuale cattivo stato di salute dell’economia italiana, ma semplicemente mette in luce problemi che si trascinano da molto tempo. In poche parole, in Italia lo Stato è troppo interventista, mentre al mercato viene lasciato uno spazio eccessivamente esiguo.
Gli anticapitalisti hanno preso il sopravvento in Italia e Francia
L’Edelman Trust Barometer 2020, basato su un’indagine condotta su 34.000 persone in 28 paesi e realizzata verso la fine del 2019, mostra il grado di sfiducia nel capitalismo a livello mondiale. L’affermazione «Il capitalismo così come esiste oggi fa più male che bene alla società» mette d’accordo il 61% degli intervistati italiani; solo la Francia, un tradizionale focolaio di anticapitalismo, fa registrare una maggiore diffidenza dei cittadini nei confronti del capitalismo, con il 69% degli intervistati che ritiene che le conseguenze negative del capitalismo siano superiori a quelle positive.
Ogni anno, la Heritage Foundation misura il grado di libertà economica in tutti i paesi del mondo. Francia e Italia si trovano in una posizione di classifica molto più bassa rispetto agli altri Stati europei. Secondo il ranking 2020, il Regno Unito è al 7° posto, la Danimarca all’8°, i Paesi Bassi al 14°, la Germania al 27°, la Francia al 64° e l’Italia al 74°. In termini di libertà economica, l’Italia si colloca quindi tra il Guatemala e l’Oman.
L’esempio tedesco
L’esempio della Germania mostra quali effetti positivi possano avere le riforme favorevoli all’economia di mercato. Oggi la Germania gode di una buona condizione economica, ma questa non è il risultato delle politiche di Angela Merkel: è grazie alle riforme introdotte dal suo predecessore, Gerhard Schröder, se le performance del paese sono positive. Se pensiamo alla solidità dell’economia tedesca di oggi, è facile dimenticare che la situazione era invece disastrosa nei primi anni 2000.
Dopo che per decenni aveva svolto un ruolo di potenza economica europea, la Germania si era ridotta a diventare il «fanalino di coda»del continente, ostacolando la sua crescita. Il tasso di disoccupazione era dell’11,3% e oltre 4,7 milioni di persone erano senza lavoro. Dopo la stagnazione del 2002, nei primi mesi del 2003 il prodotto interno lordo era addirittura calato. Il fondo pensionistico statale era vicino al collasso a causa dei drastici cambiamenti demografici, i consumi privati stavano diminuendo mentre i costi salariali accessori aumentavano.
Gerhard Schröder capì che era urgente affrontare questi problemi: «Non ci sono più soldi da redistribuire. Ulteriori pretese non possono più essere soddisfatte. Invece, se vogliamo mantenere il nostro benessere, uno sviluppo sostenibile e creare un nuovo senso di equità, dovremo ridurre alcune aspettative attuali e diminuire o addirittura abolire alcuni aspetti del nostro sistema di welfare che potevano essere giustificati mezzo secolo fa, ma che oggi hanno perso la loro ragion d’essere e quindi la loro logica».
In quattro anni di “chiacchierate con la nazione”, Schröder ha tentato di spiegare le sue proposte di riforma ai datori di lavoro e ai sindacati. Tuttavia, i leader sindacali sono rimasti ostinatamente recalcitranti, proprio come lo sono oggi in Italia. Stanco delle incessanti richieste dei sindacati per aumentare le tasse sui redditi più alti, accrescere la spesa pubblica e adottare un piano di investimenti pubblici da miliardi di euro, Schröder perse la pazienza e rispose duramente alle critiche del leader sindacale Frank Bsirske durante un discorso tenuto il 3 marzo 2003: «Queste sono le più stupide idiozie che abbia mai sentito».
Meno di due settimane dopo, il 14 marzo 2003, Schröder presentò al parlamento tedesco le sue proposte, contenute nell’«Agenda 2010«, in un discorso di 90 minuti: «Dovremo ridurre le prestazioni sociali, premiare l’iniziativa individuale e aspettarci che ogni persona sia più intraprendente». L’inflessibile pacchetto di riforme attuato da Schröder comprendeva l’accorpamento del generoso sussidio di disoccupazione con le normali prestazioni di sicurezza sociale, portando così il sussidio al livello più basso di queste ultime per garantire che in futuro nessuno «possa starsene con le mani in mano e lasciare gli altri a lavorare per lui. Chiunque rifiuti un’offerta di lavoro ragionevole – modificheremo i criteri per stabilire cosa voglia dire ’ragionevole’ – dovrà essere sanzionato».
L’Agenda 2010 di Schröder venne progettata per correggere lo squilibrio esistente tra il sistema di welfare e l’economia di mercato, allentando le norme che proteggevano i dipendenti dal licenziamento arbitrario e riducendo i benefici di altri lavoratori. La nuova indennità di disoccupazione fu limitata a dodici mesi, mentre l’indennità per le persone in cerca di lavoro fu abolita. Allo stesso tempo, vennero applicate linee guida più rigorose per determinare se un’offerta di lavoro fosse ragionevole o meno. Le protezioni per il lavoro furono allentate e abolite le norme per le professioni specializzate. Tutto ciò si sommava ai tagli alle tasse per cittadini e imprese che il governo di Schröder aveva già introdotto. Tra il 1999 e il 2005, l’aliquota fiscale massima venne gradualmente ridotta dal 53% al 42%.
Come accaduto in altri paesi per simili tentativi di riforma di sistemi di welfare particolarmente generosi, l’Agenda 2010 di Schröder ha incontrato una forte resistenza, non da ultimo nei ranghi dello stesso partito del cancelliere e dei sindacati, che hanno visto le riforme come un attacco ai diritti dei lavoratori guidato dalle forze del «neoliberismo»o del «liberismo selvaggio» Tuttavia, nel medio termine tali riforme si sono dimostrate estremamente efficaci e hanno contribuito a ridurre la disoccupazione in tutta la Germania di oltre il 50%: dall’11,3% nel 2003 al 5% nel 2019. In parte, ciò è stato ottenuto migliorando notevolmente la capacità della Germania di godere del proprio vantaggio competitivo nel mercato globale, che si è tradotto in un aumento del PIL da 2.130 miliardi di euro nel 2003 a 3.440 miliardi di euro nel 2019.
Nel frattempo, altri paesi europei che non avevano attuato riforme simili – Francia e Italia, per citarne solo due – sono stati costretti a guardare con invidia alle performance economiche, notevolmente migliorate, della Germania.
Se gli ultimi decenni ci hanno insegnato una cosa, è questa: ogni volta che l’influenza dello Stato nella vita di persone e imprese diventa troppo grande, deve essere ridotta con riforme economiche di libero mercato. Questo è ciò che il Regno Unito ha fatto sotto Margaret Thatcher negli anni ’80 e che gli svedesi hanno compiuto negli anni ’90. In entrambi i paesi, l’eccessivo peso dello Stato nell’economia è stato ridotto e al mercato è stata data più libertà di azione. Ciò di cui l’Italia ha bisogno, è un politico disposto a portare avanti un programma di riforme con la stessa determinazione mostrata da Gerhard Schröder o Margaret Thatcher – e disposto a sostenere le proprie idee contro i numerosi oppositori delle sue riforme economiche.