Sostiene dunque Goffredo Bettini che non è vero che nella sua visione – affidata in questi mesi a varie interviste, l’ultima a Fabio Martini su La Stampa, molto ascoltata dall’attuale gruppo dirigente del Nazareno – il Partito Democratico abbia rinunciato a governare in prima persona, o che il Movimento 5 Stelle sia per lui l’”alleato ideale”.
Eppure sembrava il contrario e anzi continua a sembrare, a cominciare dal primo punto, visto che la lettera di Bettini a Linkiesta, pur sostenendo che il PD avrebbe tantissimi dirigenti capaci di svolgere il ruolo di leader dell’alleanza di centrosinistra, così conclude: «Non si può non vedere che la popolarità che ha conquistato Conte, e il suo rapporto con la maggioranza degli italiani, sono il punto di partenza per ogni ricerca di una leadership della coalizione, rappresentativa e inclusiva dell’insieme delle forze che intendono collaborare». Quindi appunto, come si diceva: il PD rinuncia sin d’ora a governare in prima persona e si affida all’avvocato del popolo.
Non è però l’unica contraddizione contenuta nella replica all’articolo di Mario Lavia. Sostiene Bettini, indicato da Linkiesta come “l’ideologo di Zingaretti”, che si debba marciare dritti verso una legge elettorale di tipo proporzionale (con sbarramento al 4 o 5 per cento), visto il «modo malato e contraddittorio» in cui si è realizzato in passato in Italia lo schema maggioritario. Uno dei pregi del proporzionale sarebbe quello di consentire ai partiti di «esprimere pienamente di fronte agli eletti le loro caratteristiche, i loro ideali, i loro valori, la loro idea dell’Italia» salvo disporsi ad un «trasparente, onesto e motivato» compromesso di coalizione dopo il risultato elettorale. Così dovrebbe essere, in effetti. Sappiamo anzi che il proporzionale tende ad accentuare le divergenze tra i partiti, ognuno dei quali è spinto a sottolineare le proprie specificità nella competizione elettorale con tutte le altre forze politiche. Non si capisce pertanto perché Bettini insista a voler comporre un’alleanza pre-elettorale (con i 5Stelle), o perché sia spinto a dover incoronare sin d’ora Giuseppe Conte leader della coalizione. Proporzionale infatti = no coalizione. Ognuno corre per sé e poi si vede. Cosa che rende particolarmente incomprensibile la strategia volta a consolidare l’alleanza strategica con il Movimento 5 Stelle ispirata da Bettini e battezzata da Zingaretti come il «nuovo centrosinistra».
Peraltro Bettini nega esplicitamente di considerare il M5S l’alleato ideale.
Anche qui: avrei detto il contrario. Bettini sostiene che si tratti invece di una scelta dettata unicamente dalla «duttilità» che deve ispirare i veri riformisti – contrapposto al liberalismo massimalista – e dallo «stato di necessità» in cui il PD si è ritrovato dopo che Matteo Renzi l’ha fatto precipitare al 18 per cento. E a proposito di Renzi (e di Calenda, e della Bonino): sostiene Bettini che il vero problema è che la «grande area di elettorato liberale, moderato, ma chiaramente sovranista e antiautoritario» – mi si consenta di sottolineare il «ma» – non ha una rappresentanza politica che lo faccia contare, perché i suddetti leader passano il loro tempo a bisticciare tra di loro. Par di capire che con questa auspicata forza «riformista e moderata» Bettini sarebbe persino pronto a immaginare un onesto «compromesso di coalizione»; purché dopo il voto, a differenza del Movimento 5 Stelle che Bettini vorrebbe invece sin d’ora e per sempre abbracciato al Pd («l’alleato ideale», verrebbe da dire).
Ma soprattutto colpisce l’idea che i movimenti promossi da Matteo Renzi e da Carlo Calenda, ovvero da un ex segretario del PD per due volte vincitore delle primarie e protagonista della più fattiva stagione di governo riformista degli ultimi anni, nonché del miglior risultato elettorale che si ricordi, e da un eurodeputato eletto dal PD con record di preferenze, ministro dei governi Renzi e Gentiloni, siano a priori e definitivamente considerati altro dall’attuale PD, e non già perché se ne sono posti spontaneamente fuori, ma perché evidentemente considerati altra cosa dal punto di vista degli ideali, dei valori e della loro idea dell’Italia, più distanti dall’attuale PD di quanto non siano considerati i 5Stelle.
E colpisce infine questo: la totale negazione del disegno che nel 2007 portò alla nascita del Partito Democratico con la fusione tra DS e Margherita, l’idea di un unico grande soggetto politico in cui far confluire tutte le culture del riformismo di centrosinistra, un grande partito in grado di farsi motore del cambiamento che necessita al Paese. Quell’idea per Bettini non c’è più, e insieme a quella è defunta ogni vocazione maggioritaria. Siamo tornati ai DS, e quindi la «questione più urgente è dare una rappresentanza all’elettorato riformista e moderato, oggi disperso e senza guida», cioè sperare che nasca la nuova Margherita. Veltroni adieu.
Tutto legittimo, per carità, ma sarebbe interessante, a questo punto, capire se ha ragione Linkiesta quando indica Bettini come «l’ideologo di Zingaretti».