Paolo Macry, uno degli intellettuali progressisti più acuti, ha osservato come dopo undici mesi di governo Conte bis la forza complessiva della destra non sia stata minimamente scalfita. La convinzione che relegando Matteo Salvini all’opposizione questi avrebbe perso forza si è rivelata esatta ma non nel senso che ad approfittarne sarebbero stati i partiti di governo, dato che, come dicono i sondaggi, ad avvantaggiarsene è stata Giorgia Meloni, leader di un partito che secondo molti è ancora più a destra della Lega, se non altro per certe movenze, certi tic, certe posture che ricordano molto il Movimento sociale italiano, nonostante la presenza di uomini come Guido Crosetto o lo stesso Raffaele Fitto.
Inoltre, dopo un tempo di governo ormai non brevissimo – dice ancora Macry – «pur con qualche oscillazione, sia il Pd che il M5s sono rimasti ai nastri di partenza. Il Pd non è cresciuto, il M5s non è crollato. E comunque, anche quando i grillini hanno visto assottigliarsi i consensi, non sono stati i democrat ad avvantaggiarsene».
Insomma, l’alleanza interdittiva Pd-M5s nata per impedire le urne non è stata sinora in grado di attrarre alcunché dall’altro campo (che poi non deve essere questo il senso vero di un’impresa politica?): e l’Italia resta spaccata in due, nonostante una crisi strisciante del populismo.
Sono constatazioni oggettive. A cui va aggiunta la sensazione che la capacità espansiva del Pd non appare molto significativa (cosa c’è, oltre a un eventuale inglobamento di LeU?), soprattutto verso il famoso “centro” liberale occupato da sigle che non riuscendo a trovare un ubi consistam restano prive di attrattiva elettorale.
Quanto all’opa sull’elettorato del M5s si resta interdetti di fronte alla tattica tutt’altro che aggressiva, anzi compiacente, del Pd verso i grillini. Senza aprire mai una campagna di conquista e di proposta verso quegli elettori, come si può sperare che essi vengano a te?
In questo senso, il gruppo dirigente del Pd sembra aver ormai rinunciato del tutto a espandere la propria forza e di conseguenza a porre la propria candidatura diretta a governare il Paese, delegando Giuseppe Conte a prendere i voti per consentire al Nazareno di continuare a occupare le poltrone ministeriali.
La novità rappresentata dall’intervista di Goffredo Bettini a Fabio Martini de La Stampa è a suo modo storica. Per Massimiliano Panarari, «Bettini è convinto che la cultura politica di fondo dell’Italia degli anni 10 e 20 sia una cultura populista, e vuole farne un tratto integrante di un nuovo polo. È realpolitik allo stato puro. Così facendo, però, sotterra un tassello imprescindibile del dna dem: il riformismo».
Di certo Bettini, gran consigliere di Zingaretti, chiude una lunghissima stagione nella quale i leader della sinistra ponevano la propria personale candidatura a Palazzo Chigi: Massimo D’Alema non lo diceva ma lo pensava (e infatti andò lui al governo nel 1998 dopo che l’Ulivo di Romano Prodi aveva vinto le elezioni due anni prima); Walter Veltroni invece teorizzò la coincidenza fra leadership e premiership, sulla scorta delle esperienze europee; lo stesso Pier Luigi Bersani, che pure aveva in testa tutt’altro schema, lanciò se stesso a Palazzo Chigi come definitivo ”smacchiatore del giaguaro”; e non parliamo di Matteo Renzi che nella cornice veltroniana appose la sua smisurata volontà di protagonismo.
Con Zingaretti sparisce la candidatura del leader a premier. Ma ora Bettini fa un passo in più. Pasticciando tra un riflesso “maggioritarista” e anglosassone (Conte candidato premier) e la riproposizione del proporzionale per cui i governi si fanno dopo le elezioni, Bettini comunque insignisce l’avvocato del popolo del ruolo di leader di una coalizione Pd-M5s. Tornando in un certo senso a una auto-conventio ad excludendum.
I limiti di questa impostazione sono essenzialmente due. Primo, nessuno può assicurare – anzi – che il Movimento di Vito Crimi e Alessandro Di Battista evolverà naturaliter verso le idee e i valori del centrosinistra, a partire dall’europeismo (lo si vedrà presto quando prima o poi ci sarà un voto chiarificatore sul Mes, su cui peraltro il Pd ha votato con i grillini contro la mozione di Più Europa); e in secondo luogo nessuno può giurare sulla solidità politica e culturale dell’avvocato del popolo, il quale dopo un biennio trascorso a Palazzo Chigi resta il simbolo dell’indecifrabilità della politica italiana, tanto che nessuno dovrebbe scommettere su di lui un centesimo bucato. Tantomeno come leader del centrosinistra.
Tuttavia al Nazareno pare che vada bene così, verificando – come dice il deputato Pd Stefano Ceccanti – «se un’alleanza sorta in modo emergenziale possa evolvere in modo fisiologico. Impossibile definirlo se non in un processo aperto in cui non è detto che gli altri soggetti politici saranno anche a breve gli stessi di oggi». L’importante è tenere Salvini lontano dal governo: ma questa dovrebbe essere la pre-condizione per cambiare le cose, non l’obiettivo finale. Per ora, il tran tran vince su tutti i dubbi.