Solo oggi ho il tempo di rispondere all’articolo di Mario Lavia e ad alcune successive affermazioni polemiche che sugli stessi argomenti sono proseguite in altre varie pubblicazioni. Cerco di ragionare sui temi posti da Lavia, perché lo conosco da tantissimo tempo, fin da ragazzo quando era un giovane dirigente della federazione giovanile comunista di Roma; e lo considero una persona intellettualmente onesta e intelligente.
Egli sostiene che la mia strategia politica si fonda sulla rinuncia da parte del Partito democratico di governare in prima persona. Non è affatto nella mia predisposizione d’animo mortificare il partito che con passione ho contribuito a far nascere. Né considero il Movimento 5 stelle l’alleato “ideale” con il quale accompagnarsi.
Tuttavia la differenza fondamentale tra una impostazione pragmatica e riformista e un astratto massimalismo sta proprio nel non rifuggire dai fatti reali.
La condotta politica che oggi occorre perseguire scaturisce da uno stato di necessità. Quando nel 2008 Veltroni, Franceschini ed io (che allora ero il coordinatore nazionale del partito) ottenemmo un risultato rilevante alle elezioni politiche portando il partito quasi al 34 per cento, sostenni che avremmo dovuto sparare un secondo colpo dal nostro fucile: perché pur non avendo vinto, impiantammo nella società italiana un grande partito a vocazione maggioritaria che avrebbe potuto costruire la rivincita contro Berlusconi.
Oggi non è così. Renzi ci ha lasciato un Partito democratico al 18 per cento. Isolato e ampiamente antipatico tra gli italiani. È difficile pensare che un partito con tali percentuali e di fronte a una impressionante ondata populista di destra possa pretendere di raggiungere in tempi storici (appunto non declamatori, ideologici o astratti) la leadership diretta del governo del paese e nello stesso tempo arrestare l’involuzione autoritaria della Repubblica.
Proprio perché il riformismo è la capacità di guardare in faccia ai fatti e di differenziare l’analisi, è essenziale saper comprendere in questo momento il nemico principale che abbiamo di fronte. Il populismo è comunque lontano da noi.
Tuttavia una cosa è il populismo di destra e autoritario, che a un certo punto può mettere in discussione l’intero regime democratico come è accaduto in molti paesi nel corso del Novecento; altra cosa è il populismo sociale, rispettoso delle regole elettorali e di un regime di libertà, anche se privo, per sua stessa natura, di quei principi liberali e garantisti che sono a noi tutti molto cari.
Se non si è capaci di cogliere gli spazi e le contraddizioni che emergono nel campo populista altrimenti indistinto e considerato di medesima natura, non si fa più politica; ma paradossalmente si aderisce a una sorta di liberalismo massimalista appeso al nulla.
Esattamente il contrario della duttilità riformista che anche nelle situazioni più difficili dovrebbe essere in grado di utilizzare ogni occasione che si intravvede per riprendere il filo dell’iniziativa.
Inoltre Lavia, dopo aver rilevato una sorta di volontà da parte dell’attuale Partito democratico di escludere se stesso da un ruolo di protagonista nella contesa per il governo, sostiene che tale ritrosia si palesa anche nella rinuncia a dirigere il corso della politica.
È esattamente il contrario. Nello stato di necessità a cui mi riferivo precedentemente, se noi avessimo imboccato la strada di una competizione solitaria e senza alleanze, saremmo stati totalmente fuori dal corso dell’odierna fase storica. Anime belle: a rimpiangere ciò che di “straordinario” avevamo fatto nella nostra esperienza di governo, rammaricandoci che essa purtroppo è stata incompresa o fraintesa dagli elettori.
La sfida del governo insieme ai Cinquestelle e a Liberi e uguali, pur con tante difficoltà e tensioni, ha rappresentato esattamente l’impegno di non abbandonare le redini degli avvenimenti, in un passaggio tremendo. Anche rischiando, per non rinunciare alla nostra presenza nel “gorgo” della realtà.
Se guardiamo all’esperienza del governo Conte, anche i più critici non possono non riconoscere che sono stati ottenuti risultati importanti. Sul covid, sul sostegno alle fasce più deboli, nello scenario europeo portando a casa grandi risorse nella trattativa sul Recovery fund.
Lo stesso Movimento cinque stelle, partendo da molte posizioni lontanissime dal Partito democratico ed anche dal sottoscritto, ha realizzato dei passi in avanti. Appunto, sull’Europa. Sulla scienza. Su una maggiore consapevolezza della complessità del governo. Sono in parte cambiati grazie alla nostra iniziativa.
Rimangono ancora importanti zone d’ombra. Sugli immigrati; su alcune importanti scelte economiche; e, per me questione fondamentale, sulla necessità di una riforma radicale della giustizia in direzione del rispetto delle garanzie delle persone.
Ma uno dei principali temi dei prossimi mesi è come una grande area di elettorato liberale, moderato, ma chiaramente antisovranista e antiautoritario, non abbia ancora trovato una rappresentanza politica che lo faccia contare. Questo campo è diviso, attraversato persino da odi personali, del tutto incapaci di trovare una unitaria proposta per il paese.
Italia viva è rimasta bloccata a un dato elettorale assai modesto. Nel governo, al quale partecipa sarebbe servito come il pane un partito più grande, unitario e per questo più efficace e costruttivo. In grado di dare una maggiore ariosità al semplice duetto, talvolta asfittico, tra la sinistra e i Cinquestelle.
Un’altra parte, con Calenda, colpisce ogni giorno a palle incatenate. Privo di qualsiasi bussola declama ricette tanto belle sul piano teorico quanto inconcludenti sul piano pratico. Emma Bonino preferisce coltivare il suo orticello storico piuttosto che contribuire a formare una grande forza riformista e liberale.
Abbiamo visto nel passato come lo schema maggioritario e il tentativo (anche da me coltivato) di arrivare a uno schema sostanzialmente bipartitico, come in altri paesi europei, si sia realizzato in Italia in modo malato e contraddittorio.
I partiti non solo non sono scomparsi, ma in tale schema hanno svolto una funzione di veto oltre ogni misura e che alla fine ha destabilizzato anche il miglior governo che ha avuto il paese: la prima esperienza dell’Ulivo di Prodi.
Ricostruire il campo progressista e trasformatore dell’Italia significa rimettere i piedi a terra. Guardare cioè ad un’alleanza tra partiti che, con una legge proporzionale e uno sbarramento del 4 o del 5 per cento, abbiano la possibilità di esprimere pienamente di fronte agli eletti le loro caratteristiche, i loro ideali, i loro valori, la loro idea dell’Italia (obiettivo essenziale per rinvigorire e dare un senso anche al Partito democratico) e dopo il risultato elettorale siano predisposti ad un compromesso di coalizione, più trasparente, onesto e motivato.
In questo quadro, ripeto, la questione più urgente che si pone è dare una rappresentanza l’elettorato riformista e moderato, oggi disperso e senza guida e che vale unito più del 10 per cento.
Il Partito democratico non promuove una leadership in grado di guidare tale alleanza? Penso che il partito abbia tantissimi dirigenti capaci di svolgere questo ruolo. Ma anche qui, non si può ragionare a prescindere dalla realtà.
Fu Renzi a dare l’avvio al governo Conte II. Il sottoscritto subito dopo cercò di dare a questa proposta una durata per tutta la legislatura. Oggi lo stesso Renzi sostiene che si deve arrivare almeno all’elezione del presidente della Repubblica. Ma se è così non si può non vedere che la popolarità che ha conquistato Conte, e il suo rapporto con la maggioranza degli italiani, sono il punto di partenza per ogni ricerca di una leadership della coalizione, rappresentativa e inclusiva dell’insieme delle forze che intendono collaborare.