Si potrebbero dire molte cose a proposito del tempismo con cui Dario Franceschini da una parte (su Repubblica) e Luigi Di Maio dall’altra (sul Corriere della Sera) sono corsi ieri a giurare che Giuseppe Conte è un uomo d’onore, la prima delle quali è: che noia.
Era dai tempi di Twilight che non si vedeva una sceneggiatura così scontata, dialoghi tanto prevedibili, una tale mancanza di fantasia nell’intreccio e nella caratterizzazione dei personaggi.
E così tocca leggere che per Di Maio «c’è un’ampia convergenza di vedute» con il Pd, che in effetti è un bel passo avanti, trattandosi del partito che secondo l’attuale ministro degli Esteri fino all’anno scorso «in Emilia-Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli» (affermazione che non solo non ha mai ritrattato, il che è già abbastanza indicativo, ma che soprattutto nessuno dei suoi alleati di governo ansiosi di costruire con lui il nuovo centrosinistra gli ha mai chiesto di ritrattare, il che è ancora più indicativo).
In ogni caso il ministro è «preoccupato», perché davvero non capisce «i toni sempre più accesi tra Pd e Conte, su tematiche che potrebbero risolversi in modo più franco e trasparente».
E come dargli torto? «È il momento di guardarci negli occhi e dirci le cose come stanno se vogliamo davvero spingere il paese verso la ripresa. Le basi per ripartire ci sono eccome», conclude Di Maio nel chiaro tentativo di scuotere la maggioranza con un elettroshock di franchezza.
Dal canto suo, Franceschini è non meno preoccupato, e certo non meno sincero, quando confessa di essere «molto stanco di retroscena che dipingono ogni fisiologica e utile discussione nel governo sul merito di norme e provvedimenti come un agguato».
Quando assicura di apprezzare moltissimo il lavoro di Conte. Quando garantisce che per il Pd non esistono né un altro premier né un’altra maggioranza in questa legislatura: «Ogni nostra parola, anche quando appare critica, è per migliorare l’azione di governo, non per indebolirlo».
Resterebbe da capire, ora che alleati e retroscenisti concordano tutti sul fatto che Matteo Renzi sia diventato da qualche tempo il più ligio difensore di Conte (complice, dicono, un accordo per far saltare l’intesa di maggioranza sulla legge elettorale), dove si annideranno mai questi oscuri congiurati, questi infaticabili tessitori di oscure trame decisi a rendere impossibile la vita del governo (che altrimenti, non fosse per loro, ce ne farebbe vedere delle belle).
Un tempo, quando i retroscenisti erano a corto di capri espiatori e i capi di governo erano a corto di alibi, in un modo o nell’altro, saltava sempre fuori «l’ombra di D’Alema» (qualche buontempone, circa dieci anni fa, fece ancora in tempo a farci una pagina Facebook, chiamata proprio così). E oggi?
Sarà la società liquida, sarà la disintermediazione, sarà quel che volete voi, ma è venuta meno anche questa minima distinzione dei ruoli tra lupo cattivo e cappuccetto rosso, capro espiatorio e capobastone. Tutti vogliono fare tutto.
Ci siamo tenuti il bicameralismo perfetto, eppure non si trova più un caratterista decente né alla Camera né al Senato, e prima di gridare «Danilo Toninelli!» lasciate passare ancora qualche mese, e vedete se non finisce nel totonomi per il Quirinale.
Beh, che ho detto di strano? No, sul serio, fatemi capire: il fatto che da oltre un anno dell’elenco dei papabili faccia stabilmente parte Giuseppe Conte a voi sembra normale?