Restare appesi all’interpretazione autentica di Beppe Grillo è l’emblema della mortificazione della politica, la chiave di lettura della crisi italiana, il sigillo sull’analfabetismo culturale di questo Paese: ed ecco tutti – a partire da noi giornalisti – a cercare di capire cosa abbia voluto dire la “pasquinata” del comico genovese in stretto vernacolo romanesco (lo perdonino Belli, Trilussa e Pascarella), se si sia voluto giubilare Virginia Raggi o al contrario sostenerla.
Accade cioè che in una domenica d’estate, invece di andare al mare a mangiare il cocomero come nei film degli anni Cinquanta, siamo qui a passare al setaccio un sonetto che non è un sonetto (dove sono gli endecasillabi, dove le rime?) ma una serie di frasi in romanaccio che esaltano le gesta della sindaca accusando i romani di non meritarla, e appunto a chiedere in giro se Beppe abbia sostanzialmente scelto di ritirare Virginia dalla corsa, come pare chiedano settori del Movimento vicini a Luigi Di Maio, oppure se abbia voluto, elogiandola, spronarla a combattere con coraggio una battaglia che – si evince chiaramente dal testo – viene data per persa.
Come sempre accade con il comico genovese, che conosce l’arte della menzogna come forma letteraria e come strumento politico, tutto è vero e tutto è falso, lui che cammina sul filo di una verità sempre negata in un equilibrismo malandrino da circo di terz’ordine, con un dire e non dire che non raggiunge mai la terribile dignità di Iago ma si acconcia a trucchetto da spasimanti traditi: «Il capolavoro è aver mostrato le menzogne come giuste e necessarie, e averle giustificate con l’amore», scrisse Balzac, che gli intrighi li ha descritti come nessuno.
Non è dunque il caso di darsi all’esegesi del grillismo, scivolosa pozzanghera della post-politica, quanto di chiedersi se sia persino moralmente accettabile che la vicenda di un grande Paese e della sua Capitale vengano modellate dalle gigionerie di Grillo e se di fronte a questo non sia urgente imporre altri stili e agende, piuttosto che almanaccare sull’ipotesi che il comico, mollando la Raggi, voglia agganciare il Pd fin dal primo turno. Si sente anche questo, vedremo se è fantapolitica.
Ma intanto, al pari della politica nazionale – ambito nel quale Grillo ha creato un partito che dopo anni ancora vive (ma non prospera) sull’ambiguità – ecco che Roma viene presa per i fondelli, Roma che da Plauto a Pasolini un po’ di esperienza se l’è fatta e non ha certo da inarcare un sopracciglio per queste buffonate, come le avrebbe definite Giovanni Papini.
La verità è che la Capitale ha già dimenticato Virginia Raggi e il suo inoperoso e pasticcione modus governandi, una sindaca descritta come molto provata da questi anni di fallimenti inanellati su tutti i terreni, psicologicamente fragile, consapevole, anche solo in un angolo del suo cervello, di andare a schiantarsi contro un muro magari non riuscendo neppure a passare il primo turno.
Grillo lo sa e può darsi che il cosiddetto sonetto sia in realtà un pizzino – “Grazie, puoi andare” -, una defenestrazione dal Campidoglio prima che lei ruzzoli davvero sui famosi scalini che portano alla michelangiolesca piazza con quella statua di Marco Aurelio che di sindaci opachi ne ha visti parecchi: ma forse mai così rabbuiati come Virginia, la donna che non vivrà due volte l’esperienza di sindaca e che forse avrebbe voglia oggi più di ieri di vedere calare il sipario.