«Uno degli eventi storici di fine anni ’10 che ricorderemo come simbolo dell’avanzare dell’umanità nel nuovo secolo è la protesta a Hong Kong» scrivo nel capitolo “Questione di percezione” in apertura del mio ultimo libro “Gratitudine. La rivoluzione necessaria” dato alle stampe nel gennaio scorso e nelle librerie da alcune settimane.
Non mi sbagliavo, la protesta di Hong Kong rimane centrale anche se nei mesi scorsi siamo tutti finiti in quel buco nero sanitario, sociale, politico, economico e informativo che è il virus Covid-19 la cui enorme potenza attrattiva ha tutto assorbito e tutto fagocitato in termini di capacità nel dare le notizie e di capacità di prestare attenzione alle notizie date, che l’ha fatta scomparire totalmente dalle pagine dei giornali e dalle nostre coscienze.
Oggi, la notizia è che il Comitato permanente del Congresso Nazionale del Popolo, cioè il “cuore” del parlamento di Pechino, dopo settimane di proteste, di arresti e di contromisure, ha approvato la legge sulla sicurezza nazionale che darà alla Cina un maggiore controllo su Hong Kong. Secondo alcuni commentatori internazionali la legge ha come fine ultimo la repressione di ogni atto considerato come minaccia alla sicurezza nazionale, prevedendo il carcere a vita per la sedizione e dando spazio alle «temute agenzie di sicurezza cinesi che potrebbero operare apertamente in città», come ha scritto il New York Times.
Molto studiosi temono che la legge potrebbe valere non solo per le singole persone ma anche per le intere organizzazioni, fattore che può compromettere l’intera area inerente alla difesa dei diritti umani. In sostanza è una legge che mina il principio ‘un paese due sistemi’ che, regolando i rapporti di Pechino con Hong Kong e Macao, sino a ora ha garantito ai loro abitanti libertà civili e di espressione più ampie rispetto al resto della Cina.
«È la fine di Hong Kong come il mondo l’ha conosciuta finora» ha avvisato via Twitter quel Joshua Wong diventato simbolo del movimento di protesta del 2014 negli anni caposaldo della lotta agli autoritarismi della Cina sul territorio.
Ma perché questo fatto storico è centrale? Certo non solo e non tanto per il fatto che sia tornato nei sommari dei tg che lentamente stanno uscendo dall’egemonia del Covid-19, quanto per la sua natura simbolica di un mondo in piena crisi da trasformazione.
Se ci fermiamo un attimo a riflettere, il significato delle poche parole scelte da Wong per il suo tweet è spaventoso non solo perché definisce il futuro che si prospetta per il suo Paese, ma anche perché è applicabile e talora usato, per richiamare l’attenzione su accadimenti ed eventi ai quali l’umanità sta assistendo. Ricorderete infatti, solo per citarne uno, lo stesso messaggio usato solo l’anno scorso per definire l’urgenza di una presa di posizione per il rapido scioglimento dell’artico. Ma potremmo averlo detto anche nei giorni scorsi parlando del sistema scolastico messo a dura prova dalla pandemia la cui ridefinizione potrebbe determinare la fine di un modello come lo abbiamo, tutti noi, finora conosciuto.
È evidente dunque che viviamo in un tempo così accelerato che i mutamenti avvengono in tempo reale, in un qui e ora che non ci consente di rimandare più nulla. Noi esseri umani dobbiamo però tornare a essere il motore di queste trasformazioni in corso, perché se ci limitiamo ad adattarci alla situazione, finiamo con il rinunciare a orientare verso l’interesse generale, le varie ondate rivoluzionarie che comunque caratterizzano il nostro tempo, e così facendo rischiamo anche noi di restarne travolti.
Orientare vuol dire attivarsi nella propria sfera di influenza agendo come un modello di cambiamento virtuoso diffondendo con il nostro operato una nuova etica laica per-il-Bene dell’insieme. Per orientare dobbiamo partire da noi stessi, solo tornando ad assumerci le nostre responsabilità individuali sapremo diventare i migliori per-il-mondo.