Se c’è una caratteristica delle inglesi, è assolverci. Da quando, a metà anni Novanta, Helen Fielding cominciò a scrivere Bridget Jones – prima rubrica su un quotidiano, poi libri, poi film – abbiamo potuto cominciare a sentirci normali: ma quindi non sono solo io che penso che morirò sola in casa e nessuno se ne accorgerà e troveranno il mio cadavere divorato (Bridget temeva la divorassero i cani, io punto il mio soldino sugli scarafaggi).
L’hanno sempre fatto (anche per i maschi: prima che Nick Hornby diventasse multimilionario mettendo le nevrosi di tutti in “Alta fedeltà”, pensavate d’essere ossessionati dalle classifiche solo voi), lo faranno sempre, possiamo contarci.
La settimana scorsa, mi ha soccorsa il Guardian. Con una ventina d’anni di ritardo e il pretesto del virus, ma sono arrivati. Se aspettavo i giornali italiani, stavo fresca.
Cominciamo dall’inizio. Aprile, quarantena in corso. Mi telefona una signora elegante che fa l’ufficio stampa di prodotti culturali e vuole piazzarmene uno. Facciamo quei convenevoli consueti che, in quarantena, diventano variazioni sullo stare in casa, come te la cavi, soffri la clausura o ti piace. Solo che io sto in casa da una quindicina d’anni, quindi i miei convenevoli da quarantena non sono mai alla pari.
La signora mi dice inorridita che ha comprato dei sandali da campeggiatore perché, dopo settimane senza uscire, non sopporta le scarpe chiuse. Crudele, le dico la verità: non le sopporterai mai più. Negli unici due anni in cui, da adulta, ho fatto vita d’ufficio, scalciavo via le scarpe appena arrivata alla mia scrivania (con gran scandalo delle vicine d’open space). Adesso, me le levo appena arrivo a qualsiasi cena, incredula d’aver potuto ancora una volta pensare di sopportare d’aver male ai piedi tutta la sera. Stare scalza in casa per quindici anni ti vizia.
E non sai il reggiseno, insistevo mentre la signora dall’altro capo della linea telefonica emetteva suoni gutturali angosciati. Le rarissime volte che, uscendo, decido di metterlo perché devo andare a qualche appuntamento al quale risultare presentabile, e non posso arrivare con tutta la latteria che sballonzola sotto la camicetta, soffro talmente che al ritorno me lo levo in ascensore. Fantastico da anni sull’imbarazzo d’uscire dall’ascensore al piano e trovarmi davanti un vicino mentre ho il reggiseno in mano. Non è ancora mai successo, e questa è la prova che esiste un dio delle tettone ed è protettivo nei confronti delle nostre (in)sofferenze.
«A quello ancora non ci sono arrivata», aveva risposto imbarazzata la signora, e io sapevo che mentiva. Sapevo che era una di quelle che si vergognavano di dire che goduria era scoprire una vita senza reggiseno. Sapevo che non l’avrebbe mai confessato. Sapevo che non sarebbe mai stata pronta a dire quant’è favolosa una vita da libro della giungla. Sapevo che non potevo dirle che, a volte, il reggiseno me lo levo in taxi (da sotto la camicetta: Flashdance ha insegnato tantissimo alla mia generazione).
Poi è arrivato il Guardian.
«La morte del reggiseno: la liberazione dalla biancheria della quarantena durerà?», si domandavano nel titolo dell’edizione domenicale. La prima descrizione era quella d’una tizia che, ormai abituata a star senza in quarantena, si accorge con raccapriccio d’essere andata a far la spesa senza.
Nell’ultima parte dell’inverno in cui si poteva uscire, sono andata a teatro con un’amica. A un certo punto mi sono accorta d’essere senza reggiseno. Ho detto: Oddio, me lo sono dimenticato. L’amica ha alzato mezzo sopracciglio: Quando mai metti il reggiseno, tu? L’amica è anche una vicina di casa, abituata a incontrarmi al bar a prendere il cappuccino, abituata a incontrarmi nel raggio di cinquecento metri: non mi aveva mai vista col reggiseno, non sapeva che il mio dress code da spostamento di quartiere lo prevedeva.
Le brutte abitudini sono facili ad attaccarsi, e quindi anche il Guardian, come fosse un giornale italiano, misura le mode dai cuoricini sui social: a convincerli che il reggiseno sia destinato all’estinzione sono stati i cinquecentomila cuoricini sul tweet d’una giornalista americana, che diceva: «Non vedo come il reggiseno possa tornare dopo tutto questo». Come al solito noialtre che eravamo cialtrone anche prima che andasse di moda dichiararsi tali sui social veniamo ignorate, è uno scandalo.
Dicono che per prendere una nuova abitudine ci vogliano tre settimane. L’abitudine di stare senza ferretti dovrebbe aver attecchito anche per voi, per voi più abituate a sacrificarvi di me, per voi che sostenete seriamente i tacchi siano comodi, per voi che girate coi cerotti per le vesciche in borsa e non considerate il push-up una violazione dei diritti umani.
Una delle intervistate dal Guardian dice d’essersi rimessa il reggiseno quando una potenziale inquilina è andata a vedere il suo appartamento, le sembrava sconcio riceverla senza, e si è chiesta come avesse potuto trovare normale per decenni una cosa così scomoda.
L’altro giorno Facebook mi ha mostrato uno status di dieci anni prima. Raccontavo l’attesa in un certo posto d’un certo personaggio di potere. L’ho letto e sapevo esattamente a cosa alludevo. Era quella volta – l’unica della mia vita adulta – in cui m’hanno offerto un lavoro in cui avrei comandato. Ricordo benissimo quel pomeriggio, quella sala riunioni, quell’incontro. E quel pensiero costante: va bene, se accetto posso dare ordini, ma poi devo mettermi le scarpe tutti i giorni? Pettinarmi tutti i giorni? Mettermi il reggiseno tutti i giorni? Non è meglio restare Mowgli?