Meelis FriedenthalSe le regioni d’Europa vogliono capirsi, devono tenere conto delle diverse religioni

Intervista allo scrittore estone e studioso di teologia, autore de “Le api”: «Per quanto il cristianesimo non giochi più un ruolo così importante, credo che le sue influenze persistano e modellino ancora le società»

Ogni lunedì Europea vi porta alla scoperta dei più originali scrittori di successo in Europa, ma poco conosciuti in Italia.

«Oggi l’Estonia è molto ansiosa di affermarsi come paese digitale e all’avanguardia per l’innovazione digitale: va bene, ma allo stesso tempo credo che un paese non dovrebbe mirare ad essere identificato con una sola semplice caratteristica. Una varietà di possibilità e identità è meglio di una singola definizione». Meelis Friedenthal non è lo scrittore estone che si aspetterebbe di trovarsi davanti chi conosce il paese baltico solo per come lo raccontano i media. 

Dimenticate e-government e cittadinanza digitale, Friedenthal prima di diventare scrittore ha svolto un dottorato in teologia all’Università di Tartu: tema delle sue ricerche il “Tractatus moralis de oculo”, scritto morale-allegorico duecentesco di Petrus di Limoges conservato agli archivi di Tallinn. «Quel testo è, da un lato, un supporto per la predicazione, ma allo stesso tempo offre interpretazioni allegoriche che attingono alle conoscenze più all’avanguardia in materia di ottica e oftalmologia del tempo». 

Molte delle idee, immagini e discussioni di quel trattato sono entrate ne “Le api”, il suo secondo romanzo, l’unico che possiamo leggere in italiano, tradotto da Daniele Monticelli per Iperborea, che nel 2013 gli è valso il premio per la letteratura dell’Unione europea. Prima aveva pubblicato il romanzo di fantascienza “Kuldne aeg” (Età dell’oro), sul ruolo della Storia nel modellare la nostra identità; “Inglite keel” (Il linguaggio degli angeli) è il suo ultimo romanzo e in autunno uscirà una raccolta di racconti.

“Le api” è un romanzo storico filosofico ambientato nel XVII secolo che segue le vicende e le speculazioni dello studente Laurentius Hylas: il giovane, in fuga da Leida, va a studiare a Tartu, piccolo centro ai margini dell’allora regno di Svezia e sede di un’Università dove circolano già le idee rivoluzionarie di Newton e Cartesio. Teorie scientifiche e suggestioni magiche, filosofia, teologia, alchimia e medicina si riversano senza soluzione di continuità una nell’altra: il narratore racconta i malesseri e le visioni del protagonista, le cui malattie oniriche rendono i fantasmi indistinguibili dalla realtà, lasciando la sua stessa figura sempre avvolta nell’ombra. 

Se non come paese digitale, come descriverebbe l’Estonia?
Di recente mi è stato chiesto di scrivere una storia per “La Lettura” del “Corriere della Sera iniziando con la parola che meglio descrivesse il paese. Scelsi “delicato”, ma a causa di problemi di comunicazione e di un piccolo incidente il traduttore spostò l’ordine delle parole per ottenere una migliore leggibilità e la storia iniziò con la parola pelle”. In un certo senso è interessante e forse anche più intrigante.

Cosa intendeva con “delicato”?
Volevo attirare l’attenzione sul fatto che l’Estonia è piuttosto paludosa, coperta di verdi foreste, morbido muschio, lenti fiumi, migliaia di laghi. Tutto il resto – si tratti di persone, villaggi o città – è costruito su queste basi. Ciò rende l’Estonia abbastanza diversa dai paesi montuosi o da quelli aridi. Ovviamente anche la latitudine gioca il suo ruolo: inverni lunghi e bui, estate in cui il sole tramonta a fatica, questo influenza le persone e il loro carattere. 

Non intendo dire che esista un “carattere nazionale”, ma che la terra influenza le persone che la abitano allo stesso modo in cui una bicicletta influenza chi la guida. Ti dà alcuni vantaggi ma allo stesso tempo richiede un certo comportamento: devi mantenere l’equilibrio, tendi ad evitare certe strade. La terra è la nostra bicicletta. Inoltre l’Estonia è una terra di confine, ciò significa che abbiamo una storia complicata, che si riflette nella nostra attuale situazione. Oltre alla terra, penso che la Storia sia estremamente importante per comprendere una persona o un Paese, che sono quello che sono a causa della Storia.

Il fatto di essere ai confini d’Europa è più un vantaggio o un rischio?
Le regioni al confine si trovano sempre, in linea di principio, in una situazione in cui non sono né – né. Questo rende gli abitanti come dei senzatetto: non sono interamente compresi da nessuna delle due parti, vivono in una condizione estenuante che richiede un costante equilibrio. Lo scrittore estone Jaan Kross ha iniziato il suo libro “Kolme katku vahel” (Between Three Plagues) con la scena di un equilibrista che cammina su una corda tesa sopra la città. Doveva simboleggiare la situazione estone durante l’era sovietica, ma in un certo senso simboleggia ancora la nostra situazione. I confini sono anche un importante locus theologicus, per usare il linguaggio di Paul Tillich, poiché anche come esseri umani siamo sempre al confine, tra la vita e la morte.

A un certo punto de “Le api”, il protagonista ragiona sull’antico concetto di Unione iperborea e sul nazionalismo svedese. C’è ancora un sentimento di appartenenza che unisce i paesi del Nord Europa?
Ho trascorso l’anno scorso in Germania, al Max-Weber-Kolleg. Secondo la famosa teoria di Max Weber lo spirito del capitalismo sorse dal particolare tipo di protestantesimo prevalente nei paesi del Nord. A suo avviso fu la mescolanza riformata-luterana-pietistica che diede origine alla frugalità, a una rigorosa etica del lavoro, a una disciplina. Questa teoria è ormai caduta in disgrazia, ma in effetti ci sarebbe qualcosa da dire sulla mentalità e il background religiosi.

Se le diverse regioni d’Europa vogliono capirsi, devono tenere conto delle diverse religioni, di questo tipo di background. È abbastanza determinante se una terra è prevalentemente cattolica, riformata o luterana, per non parlare degli ortodossi. Le chiese sono, nel bene e nel male, portatrici ed espressione della tradizione e portano inevitabilmente con sé una dimensione storica. 

Ma non sono solo le circostanze religiose e politiche recenti che dovrebbero essere prese in considerazione, anche l’Impero romano influenza ancora – a nostra insaputa – pensieri e abitudini. Per molto tempo, per esempio, tutte le università importanti si trovavano nel territorio dell’ex Impero romano, solo durante il XIX secolo le cose iniziarono a cambiare. La linea Danubio-Reno è ancora in qualche modo visibile.

Le religioni hanno diviso e unito l’Europa, oggi sembrano meno cruciali: non per lei.
Per quanto il cristianesimo non giochi più un ruolo così importante, credo che le sue influenze persistano e modellino ancora le società. Il secolarismo sperava che la religione si estinguesse nel XXI secolo, ma le statistiche mostrano il contrario. Certo sta avvenendo una certa individualizzazione del credo. Le religioni hanno storicamente svolto un ruolo molto importante nell’unire e coordinare grandi gruppi di persone verso azioni comune. 

Oggi le nazioni, gli Stati e le organizzazioni politiche – come l’Unione Europea e le Nazioni Unite –, tendono a giocare lo stesso ruolo, ma credo che le religioni abbiano avuto più successo. Le religioni offrono alle persone un senso di appartenenza e determinati obiettivi orientati al futuro che le organizzazioni secolarizzate non possono dare con la stessa efficacia. Ho la sensazione che la “solidarietà sociale” offerta dalle religioni sia esattamente ciò che manca attualmente nelle nostre società. Questo è forse il motivo per cui le persone oggi hanno un maggiore bisogno di religione rispetto al secolo scorso. 

Non credo ovviamente si debba tornare alla “religione del periodo medievale”, ma è necessario qualcosa di nuovo che possa ottenere un risultato sostanzialmente simile. Il comunismo e il nazionalismo si sono sviluppati come ideologie sostitutive della religione, che offrivano obiettivi comuni analoghi alle persone, ma storicamente possiamo dire che queste ideologie funzionino più male che bene. Al momento non abbiamo validi obiettivi ideologici che possano unire le persone, e questo è un grosso problema.

Umanitarismo e solidarietà non bastano?
Sono obiettivi buoni e giusti in se stessi. Ma implementarli e portarli a una conclusione logica spesso si traduce in qualcosa di simile all’Unione Sovietica, dove questi valori cominciarono a essere affermati attraverso il terrore. Forse è una questione di autorità e di – cosiddetta – sfera del potere. Se l’autorità è divina e le persone sono solo i suoi imperfetti esecutori, se il presupposto è che non possiamo mai davvero raggiungere la perfezione sulla terra, allora c’è spazio per il riconoscimento dell’umiltà e della propria imperfezione. 

I movimenti basati sulla solidarietà e l’umanitarismo spesso non riconoscono l’imperfezione umana e richiedono a tutti la stessa consapevolezza di classe e moralità: ciò provoca spesso reazioni contrarie. Si creano come conseguenza movimenti che mirano esattamente all’opposto: è ciò sta già accadendo negli Stati Uniti e in molti luoghi d’Europa. In generale, una maggiore umiltà ci farebbe bene. Penso che se riconoscessimo la nostra inadeguatezza e incapacità, ad esempio, di governare la natura e dirigere tutto secondo la nostra volontà, allora forse potremmo anche comunicare meglio tra noi esseri umani.

Che non possiamo controllare tutto l’abbiamo visto con la pandemia, giusto?
Storicamente epidemie e malattie infettive sono state eventi più comuni che straordinari. In un certo senso, abbiamo vissuto in tempi insoliti finora, non avendo avuto grandi epidemie negli ultimi cento anni: solo per questo l’attuale viene descritta come senza precedenti. 

Mi ha colpito il fatto che non eravamo preparati ad affrontare i focolai. Proprio come in passato, non abbiamo informazioni certe su come si diffonde la malattia, se è trasmissibile dalle superfici, fino a che punto una persona è infettiva, perché alcune persone si infettano più facilmente di altre. L’unica cosa certa, come nel Medioevo e nei primi tempi moderni, è che la quarantena è il mezzo più sicuro per fermarne la diffusione. Crediamo di essere in una posizione molto migliore rispetto al Medioevo, ma se osserviamo le reazioni alle malattie, siamo sorprendentemente simili.

Ne “Le api” vediamo che idee, persone, libri, intellettuali, oggetti circolavano in tutto il continente nel diciassettesimo secolo. Cosa teneva assieme l’Europa di allora?
Nel primo periodo moderno nacque una Repubblica delle lettere (Respublica literaria), una rete di persone, che si scambiavano corrispondenza sulle questioni letterarie, scientifiche e filosofiche, parlavano di libri e talvolta di politica, discutevano di religione e delle migliori idee sulla legge. Credo che questa repubblica, che ha attraversato tutti i confini nazionali e sovranazionali, possa ancora servire da modello per l’Unione europea. Questo interesse comune e onesto per tali domande e l’idea del patriottismo cosmopolita e di humanitas mi impressiona molto. 

Ciò che ha tenuto insieme tutto questo è stata la comunicazione – estremamente importante oggi. Comunicazione nel senso di fidarsi l’uno dell’altro e cercare di capire il proprio interlocutore, nel segno del principio di benevolentia, cioè che tutto dovrebbe essere interpretato nel modo migliore, non nel peggiore. Credo che questo principio sia stato dimenticato e forse per questo motivo i social sono pieni di litigi in malafede che avvelenano tutto il dibattito. Cerco di starci il più lontano possibile, ma sfortunatamente non è così facile.

Di recente ha affermato che “ci sono libri che mirano specificamente a ottenere eccitazione o emozione” e che “scioccare un lettore o sorprenderlo con la spudoratezza non è molto meglio della politica populista”. In che senso?
Ho la sensazione che la letteratura mediocre spesso cerchi di distinguersi con gli eccessi per compensare i suoi difetti sostanziali. Al giorno d’oggi, non c’è niente di più facile che insultare un gruppo o affrontare l’esibizionismo spudorato (faccio riferimento alle biografie molto schiette e rivelatrici), che è essenzialmente quella letteratura indistinguibile dalle colonne dei tabloid. Il populismo politico è simile, nel senso che cerca di giocare sui bassi impulsi delle persone da un lato e di irritare con discorsi volgari dall’altro. 

Onestamente, ho la sensazione che il postmodernismo, la “relatività della verità” e quella certa natura anti-intellettuale di questa cultura filosofica svolgano un ruolo importante in questo. Quando l’arte è ovunque, non è da nessuna parte. In un certo senso, Donald Trump è in politica ciò che Jacques Derrida era in filosofia. Vediamo che non si può continuare così, questa strada è praticamente senza futuro.

“Le api” è stato definito un’anatomia della malinconia, la melanconia è la malattia che affligge anche il protagonista: un sentimento molto europeo.
La malinconia è stata molto produttiva intellettualmente. Esiste ovviamente un rischio di depressione, quando una persona non può più fare nulla, ma una lieve depressione favorisce il lavoro intellettuale. Questo è già stato notato dai primi padri della Chiesa ed è ancora valido oggi. La malinconia è certamente europea nel senso che è stata con la nostra cultura per secoli. Preferisco di gran lunga la malinconia all’ansia. L’ansia è competitiva, forse anche capitalista, il comunismo è ottimista, la malinconia non è nulla di tutto ciò.

Autori estoni che crede andrebbero tradotti?
Nikolai Baturin e Madis Kõiv sono due autori estoni che ritengo molto interessanti. La narrativa speculativa estone è molto buona. Si dice che il genio di Goethe paralizzò la letteratura tedesca per diverse generazioni: in Estonia non abbiamo nessuna statua di Goethe, la nostra letteratura è molto giovane, quindi dovremmo essere liberi di creare il nostro percorso. 

Eppure non credo che la nostra situazione sia ideale per la letteratura: serve una certa massa critica per far emergere qualcosa di nuovo, ci devono essere abbastanza scrittori e lettori, traduzioni in entrata e in uscita e un dibattito culturale: questo è difficile in un paese così piccolo. Scrivere in una lingua parlata da 1,3 milioni di persone a volte è un po’ stancante e frustrante.

Cosa sta leggendo?
“Moscovites” dell’artista e scrittore svedese Albert Engström, che descrive la Russia post-rivoluzione del 1923, con illustrazioni d’autore: molto illuminante. Sono stato influenzato anche dalla letteratura italiana. Considero “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati uno dei miei preferiti, e mi sono piaciuti immensamente i testi di Italo Calvino. Non posso poi non citare Umberto Eco, i cui testi, forse per la giocosità e l’ottimo senso della storia, ho sempre apprezzato molto.