Ogni lunedì Europea vi porta alla scoperta dei più originali scrittori di successo in Europa, ma poco conosciuti in Italia.
“In questi mesi il corpo di quella puttana bellissima, esperta e lurida che è l’Europa è percorso da brividi ogniqualvolta sente pronunciare il nome di Buda [la capitale ungherese, occupata dagli ottomani nel 1541, che nel presente della narrazione, con il patto della Lega Santa, sta per essere liberata, ndr]. I fiumi e i monti chiacchierano eccitati tra loro di come, da adesso in avanti, tutto sarà diverso. I pali indicatori delle strade vengono divelti: i confini vengono cancellati e ridefiniti, cosi come pure le signorie e gli imperi”.
Ci sono scrittori che raccontano storie e altri che colonizzano nuovi mondi, pensando e scrivendo in modo diverso, storto, inquietante. Per un centinaio di pagine si sta scomodi, come quando si indossa un paio di scarpe nuove. Nel successivo centinaio lingua e immaginario cominciano a plasmarsi su ciò che si legge: come fosse la scarpa a dettare il ritmo della camminata.
Poi succede qualcosa, si corre a prendere le vecchie scarpe – l’intento non era di buttarle – e si scopre che non calzano più. È quello che accade leggendo le opere più grandi, è quello che accade con “La leggenda dei giocolieri di lacrime” di László Darvasi (Il Saggiatore, traduzione di Dóra Várnai, traduttrice anche di questa intervista).
L’ungherese Darvasi, nato nel 1962 a Törökszentmiklós, si è fatto conoscere in Italia due anni fa con la raccolta di racconti surreali “Mattina d’inverno con cadavere”. In patria ha pubblicato più di venti volumi, molti dei quali tradotti in francese, tedesco e olandese. Oltre all’attività di poeta e scrittore è stato insegnante e giornalista. Scrive per la rivista “Élet és Irodalom” (“Vita e letteratura”) e nel 2008 ha vinto il premio Sándor Márai, il maggior premio letterario ungherese.
Ora arriva in Italia “La leggenda dei giocolieri di lacrime”, pubblicato in patria per la prima volta nel 2001. Lo si potrebbe definire una specie di “Grande romanzo del Centro Europa”, se queste terre non fossero troppo abituate al cambiamento e alla transitorietà degli alterni poteri per poter credere che anche un capolavoro possa essere definitivo.
Tartari dalla testa di cane e leoni in pietra che prendono vita non destavano stupore in quei secoli XVI e XVII in cui sono ambientate le vicende, quando le cronache erano piene di esecuzioni pubbliche, stragi, assedi, scorribande e guerre di religione per giustificare il sangue come unica religione. I luoghi sono soprattutto la Transilvania e Buda, ma ci sono anche Praga, Vienna e Venezia.
Un neonato ride tra le macerie osservando due giovani fare l’amore e poi si addormenta felice, mentre gli innamorati vengono dilaniati dalle schegge dell’ultimo colpo della giornata sparato dall’esercito turco. Un nano veneziano figlio di una sgualdrina e di un artigiano dell’Arsenale costruisce una gondola nana. Grottesco e surreale impediscono ai drammi di farsi tragedie. Storie slegate, spesso distanti nel tempo e nello spazio, che a volte si troncano per una morte improvvisa o un’impiccagione, altre volte invece proseguono.
«È un bel panorama multietnico, con tanti popoli, tante razze, personaggi di varie nazionalità, a volte verosimili, a volte paradossali, in alcuni casi tragici», spiega Darvasi. «Furbizia ebrea, ottusità magiara, tristezza tartara. Tanti elementi diversi uniti sotto il segno di un’unica grande paura. Di un’unica malinconia comune». Questa paura comune è rappresentata dall’apparizione, in tutte le vicende, del carro dei giocolieri di lacrime: cinque “artisti del pianto” sulle strade del tempo che versano lacrime di miele, sangue, sassi neri, ghiaccio, schegge di specchio.
“Quantunque non sia vera, questa testimonianza è vera comunque”, scrive Darvasi. “E così succede anche con la istoria. Se l’uomo fosse libero, non ne avrebbe bisogno. Ma l’uomo non è libero. Benché ogni tanto faccia finta di esserlo. Per divertirsi. Per far baldoria. Per giocare con le proprie lacrime. Far piangere gli altri. Piangere su se stesso. […] Questo è il nostro vero patrimonio. Per questo diciamo che sapremmo tutto dei giocolieri di lacrime anche se nemmeno una parola fosse pronunciata su di loro”.
Come nacque l’idea del carro di lacrime e del libro?
C’è stato un periodo, circa trent’anni fa, in cui scrivevo soprattutto testi brevi, raccontini, piccole cose. Una di queste paginette parlava di cinque giocolieri di lacrime, di lacrime-capolavoro, lacrime assassine, lacrime dell’Est Europa. Di come piange un ungherese, come piange un serbo, un dalmata, un ebreo, un bosniaco. Un frammento di testo, un brevissimo abbozzo. Lo leggo, lo rileggo, e alla fine dico a me stesso: ma questo è un romanzo. E ho iniziato a scriverlo. E sono andato avanti per cinque anni.
A dare forza alle sue pagine è la lingua: deve forzare l’ungherese per arrivare a questo risultato o è una lingua duttile alla sua immaginazione? Conosce altre lingue?
Sono giusto in grado di balbettare qualcosa in tedesco. Ho iniziato scrivendo poesia, e il mio io lirico sbuca fuori spesso anche quando scrivo prosa. Regolarmente mi viene rimproverato (con buona ragione) di adornare troppo le mie storie. Mi è capitato di leggere una dichiarazione di uno scrittore sloveno secondo cui sentire un dialogo in ungherese è come sentire dei cani che abbaiano. Può essere. All’estero capita spesso che qualcuno si avvicini chiedendo: ma che lingua state parlando, signori? L’ungherese può risultare contemporaneamente familiare e alieno alle orecchie dei non-ungheresi.
Alcuni anni fa ho rischiato di morire a causa di una polmonite. Quando dopo dieci giorni di coma mi sono risvegliato, la cosa più importante per me era poter parlare. Poter dire. Poter esternare. Ricordo che pur di fare due chiacchiere mi mettevo a lusingare l’anziana infermiera che odorava di nicotina. Per me la lingua è azione, il parlare è sempre qualcosa che accade. Una specie di cinema. Vedo ciò di cui parlo. Se posso parlare, allora sono vivo. C’è senza dubbio anche una componente maniacale in ciò, lo ammetto.
Nel Cinquecento e Seicento l’Europa era dilaniata dalle guerre: allora il carro dei giocolieri di lacrime aveva solo l’imbarazzo della scelta sui luoghi in cui fermarsi. Oggi viviamo nel periodo di pace più lungo che l’Europa abbia conosciuto, non siamo più abituati a quella violenza?
Un critico tedesco ha definito “La leggenda dei giocolieri di lacrime” un romanzo barbaro, argomentando che le abitudini di lettura dei tedeschi sono ormai improntate all’Illuminismo, e pertanto una simile sovra-poeticizzazione della violenza e della devastazione rappresenta un atto barbarico. In sostanza, l’intero libro non sarebbe altro che una coloratissima tela intessuta di barbarie.
Questo romanzo si svolge tra i secoli XVI e XVIII, un periodo estremamente cruento, con guerre lunghe e terribili, ma caratterizzato anche da un atteggiamento piuttosto empatico nei confronti dei vinti. Di sicuro mi ha influenzato molto anche il fatto che, mentre scrivevo, qui accanto si stavano svolgendo le guerre jugoslave. Il sangue versato sgorgava attraverso il confine serbo, e allo stesso modo si espandeva anche il contagio della mentalità bellicista.
I cinque giocolieri di lacrime, insomma, avrebbero anche oggi luoghi dove fermarsi?
Attualmente sto proprio lavorando a un nuovo romanzo che dovrebbe rappresentare la versione del XX secolo di “La leggenda dei giocolieri di lacrime”. Un’impresa a dir poco monumentale. Vorrei arrivare fino ai giorni nostri. Nel romanzo, ambientato principalmente nella mia città natale, a Törökszentmiklós, si intrecciano storie di famiglie ungheresi, di personaggi ebrei, di aristocratici, negozianti, artigiani, contadini.
Se riuscirò davvero ad arrivare fino al presente, allora nel capitolo relativo all’oggi ci sarà di sicuro una scena in cui un gruppo di rifugiati vaga per la città. Appaiono e spariscono. Come se fossero fatti di nebbia. La mattina vengono avvistati di nuovo. Non riescono ad andarsene. Non vogliono. Perché qualcuno in città ha rubato il volto di una bambina rifugiata. E lei da allora non riesce né a piangere né a ridere. Ha bisogno di riavere quel volto. Che è il suo.
Come si relazionano il suo lavoro da giornalista e quello di scrittore: ci sono influenze, suggestioni comuni?
Certo, si completano a vicenda. Pubblico sotto due nomi: Darvasi e Ernő Szív. Può anche succedere che questi due si scambino qualche testo tra loro. Darvasi preferisce pensare in grande, predilige le forme letterarie più serie: racconti, romanzi, drammi teatrali. Szív invece riempie quaderni di appunti, scrive brevi pezzi di colore.
Darvasi lavora con le pietre, la merda, il sangue, si propone di oltraggiare il grandioso. Szív gioca con le biglie di vetro, vuole miniare il singolo momento. Le faccio un esempio: ultimamente vanno di gran moda i libri di ricette. Naturalmente anche Ernő Szív ne ha scritto uno, ma lui racconta di briciole, di ultimi bocconi, di quelle volte in cui si mangia in piedi.
L’Ungheria nel tempo è stata conquistata dagli ottomani, retta da sovrani protestanti, poi dagli Asburgo, e via fino ai governi filosovietici che man mano si allontanarono dall’Urss. Che identità nazionale è uscito da tutto questo?
Il principale tratto distintivo della coscienza identitaria magiara è la narrazione secondo cui un tempo andava tutto bene, poi sono arrivati i peccati, le meschinità, i tradimenti, e a causa di tutto ciò la punizione divina. Anche l’invasione turca di tanto tempo fa rappresenta una parte di questa punizione.
L’ungherese ama poi più di ogni altra cosa incolpare gli altri per i propri guai. Gli piace puntare il dito: questo o quell’altro ci vuole male, questo o quell’altro ci vuole far perire. La sua coscienza nazionale non ha mai avuto un carattere analitico, non interpreta e non argomenta, ma si articola sempre sotto forma di enunciazione apodittica, di semplificazione. È una coscienza nazionale impostata sulla “costruzione del nemico” e trae spesso alimento da false ideologie. In questo non è mai cambiata, è così anche adesso.
Quali luoghi del Vecchio Continente le sono più cari?
Il luogo per me più caro è la grande pianura magiara, l’Alföld, la mia terra natale. Lì ho imparato tutto ciò che era possibile imparare, la vita, la morte, il dolore, il bene, il male, penso di basarmi ancora oggi su quelle esperienze. Non amo particolarmente le montagne. Mi piace il paesaggio piatto, dove in lontananza si intravede il bianco delle fattorie, dove i bordi dei canali sono costeggiati da acacie e salici piangenti, dove l’orizzonte è punteggiato dai recinti abbandonati. La mia acqua è il fiume Tisza.
A Berlino ho poi imparato a vivere in una grande città, da un quarto di secolo non passa un anno senza che vi faccia ritorno. Posso dire di averci abitato ormai per quasi due anni. È come se lì fossi nato una seconda volta. A Szeged ho vissuto per vent’anni, e anche quella città è stata per me un grande amore. Da vent’anni vivo a Budapest, un altro amore.
Quando mi stabilisco da qualche parte l’obiettivo è sempre vivere la zona in piccoli cerchi: conoscere il negozio, conoscere la taverna, conoscere il museo. Sapere dove devo andare, dove posso rivolgermi quando ho paura. In Ungheria c’è sempre stata una forte contrapposizione tra la capitale e la provincia. Per me è stato del tutto naturale posizionarmi nella città ungherese più grande, l’unica veramente poliedrica, Budapest.
Quando viaggio in Transilvania, o nella cosiddetta Bassa Ungheria di una volta, in Voivodina, o nell’odierna Croazia, sento sempre una strana, indefinita stretta al cuore. Non credo sia sintomo di un deprecabile nazionalismo osservare con un certo dispiacere il processo di perdita di cultura.
E va bene, adesso faccio anche un po’ l’adulatore: a gennaio io e mia moglie siamo venuti a Roma, per entrambi si è trattato della prima visita alla città, ed è stato amore a prima vista. Ci tengo anche ad aggiungere che quando si tratta di calcio italiano, tifo Roma! E poi c’è Vienna, ovviamente. Uno vi fa un salto, e subito inspira l’aria in maniera un pochino diversa, diventa un pochino “negro”. Scusate l’espressione.
Cos’è l’Europa oggi per lei e cos’è l’Europa vista dall’Ungheria?
Un grande pensatore politico ungherese, István Bibó, diceva che essere democratici significa non avere paura. Per me l’Europa rappresenta la cancellazione della paura, o almeno il suo addomesticamento. La sensazione di sicurezza era stata distrutta, ma l’ideale europeo l’ha fatta rivivere.
Europa significa che si può parlare normalmente di determinate cose. Certo, è anche successo che una guardia di confine tedesca si prendesse gioco del mio nome, ma nonostante ciò Europa per me significa non aver motivo di diffidare, non aver paura che qualcuno mi farà del male, non dover temere che mi mentano in faccia, che mi vogliano spacciare una qualche schifezza per caviale.
In Ungheria per tutto il XX secolo ci sono sempre stati seri motivi per soffrire di paura esistenziale. Invece di affrontare ed eliminare uno a uno questi motivi – processo che di sicuro avrebbe richiesto molto impegno e molta fatica – il sistema, ossia la nuova élite politica, che mostra sempre di più i subdoli segni di un invecchiamento precoce, ha lasciato che l’esperienza politica fondamentale del popolo ungherese restasse la paura. È su questo che si basa il regime. Non essere creativo, sii rispettoso delle regole. Non fare domande, annuisci. Non chiedere, accetta ciò che ti viene dato.
Cosa vede nel futuro politico ungherese?
Che cosa posso rispondere a questa domanda? Mentre l’elemento principale della politica interna ungherese resta la critica a Bruxelles, il biasimare senza sosta i burocrati di Bruxelles, il presidente bielorusso Lukašėnka dichiara davanti al primo ministro ungherese – che gli risponde con un largo sorriso -, di aver finalmente trovato qualcuno che lo capisce. Che lo capisce in tutto e per tutto. Piano piano stiamo capendo tutti i despoti orientali. E tutti i despoti capiscono bene noi. Ma allora perché il nostro primo ministro non fa che aggiustarsi nervosamente la giacca durante tutto l’incontro con Vladimir Putin?
Viktor Orbán è figlio naturale dell’identità ungherese o ne è la degenerazione?
Penso che il nostro primo ministro sia un fenomeno perfettamente e autenticamente ungherese. Si potrebbe andare avanti a parlare di ciò a lungo, e di sicuro la conversazione si concluderebbe con un appassionato autodafé per tradimento della patria. Domanda: può essere dotato di talento colui che ha posto il suo supposto talento al servizio dei senza talento, che basa la propria attività sulla radicale e aggressiva promozione della mancanza di talento?
Come sarebbe stato bello se negli anni ’80 quel certo giovanotto ambizioso e combattivo fosse stato dotato anche di talento per il calcio! Sarebbe potuto diventare un quasi-Totti, un quasi-De Rossi. Così adesso non dovremmo battagliare tanto. Saremmo diventati un paese molto più tranquillo, io credo. E non dovremmo sentire appena alzati un’ennesima nuova cazzata tutte le sante mattine.
In cosa l’Ungheria può arricchire l’Europa?
La puszta, il gulyás/gulasch, Béla Bartók, Péter Esterházy, Imre Kertész, András Schiff, il lago Balaton. E poi aggiungerei anche la rivoluzione che abbiamo avuto nel 1956. Che è una storia molto, ma molto più sfaccettata di come la si interpreta oggi. C’è poi da dire che sono cose molto diverse quelle che può offrire il popolo dell’Ungheria, rispetto a quelle che può offrire il governo del paese, o l’ideologia ufficiale del paese, o i suoi intellettuali, o la sua clientela economica, la sua terra, il suo paesaggio. Bisogna scegliere. Penso che ognuna di queste scelte possa comportare degli insegnamenti interessanti.
Perché scrive?
Detto così sembra una cosa strana, ma l’obiettivo della letteratura in fondo è il lettore. Arrivare a qualcuno, a una persona che non sappiamo chi sia. Essere presenti in un luogo estraneo, a qualcuno che è diverso da te, che non sei tu. A me non interessa il lettore, nel senso che non ci penso quando scrivo, eppure scrivo per lui, non è vero? Ci si metterebbe a scrivere sapendo che mai nessuno leggerà quelle righe, le storie su cui si sta lavorando?
Dio probabilmente non sa leggere; lui, secondo me, è un analfabeta. Lo lascerei fuori da questo discorso dunque. Per quanto mi riguarda, scrivo anche per aver meno paura. Al contrario di molti scrittori, io amo scrivere. La scrittura è ubriacatura, è sogno, è cinema, è Amarcord. Una certa, meravigliosa forma del respirare. Sono nello stesso posto, eppure sono anche altrove. Sono lontanissimo, eppure non mi sono mai mosso.
Diversi autori ungheresi recentemente pubblicati in Italia – lei, Ádám Bodor, László Krasznahorkai – sono accomunati da uno sguardo allucinato e inquietato sulla realtà, molto diverso da quello a cui siamo stati abituati per esempio dalla letteratura anglofona. Questo sguardo ha radici comuni?
Quello che posso dire di certo è che questa letteratura così variegata ha un comune denominatore, e cioè il fatto che Krasznahorkai, Bodor, e naturalmente anche Imre Kertész o Péter Nádas hanno già avuto modo di incontrare il Mostro. Il mostro è uno speciale fenomeno est-europeo. Ogni tanto appare, a volte si trattiene a lungo, e non si può nemmeno dire che incrudelisca più di tanto, capita anzi che faccia quasi le moine. Per quanto riguarda Péter Esterházy non posso dire con certezza che l’abbia visto, ma di sicuro ha avuto modo di osservare piuttosto da vicino i segni dell’attività di questo mostro.
Chi ha incontrato il mostro del luogo almeno una volta, da allora in poi non si sforzerà più di mettere le proprie frasi in giacca e cravatta, non le pettinerà più come se dovessero servire per una dissertazione politicamente corretta in occasione di qualche educata conferenza. Serve un abbigliamento diverso quando si sa che quel mostro, quella specie di orco, non è andato via, e di conseguenza può ricomparire in qualsiasi momento.